Storia MinimaLa solidarietà incerta. L’America di Isaac, senza fascino e abbandonata

Nell’agosto 2005 si chiamava Katrina. Investì New Orleans il 28 agosto del 2005.  Sette anni dopo ci risiamo. Cambia il nome, ora si chiama Isaac, ma la scena rischia di essere la stessa. Sette ann...

Nell’agosto 2005 si chiamava Katrina. Investì New Orleans il 28 agosto del 2005. Sette anni dopo ci risiamo. Cambia il nome, ora si chiama Isaac, ma la scena rischia di essere la stessa.

Sette anni dopo ci risiamo. In che cosa ci risiamo? Nella sordità con cui l’America profonda guarda all’annuncio di Isaac il nuovo protagonista di questi giorni.
Dietro c’è l’America che aspetta. Che cosa aspetta? Aspetta di capire se ha una classe politica.
Dietro l’evacuazione forzata, l’attesa della catastrofe c’è un’America in attesa di risposte, che misurerà cosa è cambiato rispetto a sette anni fa.

E’ stata la cinematografia a dare il senso e la percezione di ciò che abbiamo classificato come catastrofe. Molti di fronte a ciò che accadrà hanno pensato a 1999, Fuga da New York, forse il film che con maggior approssimazione abbiamo delle scene di panico, dell’imminenza e dell’arrivo della catastrofe, comunque dello sconvolgimento della propria quotidianità.

Tuttavia non è così. Le scene e il senso delle immagini che ci giungono dai territori investiti da Isaac misurano un sistema di emergenza, di una “protezione civile”. Nelle prossime ore sapremo se funzionerà, se la lezione di sette anni fa ha insegnato qualcosa o no (una domanda che in Italia npoi abbiamo molto presente, che ci facciamo spesso, ma senza trovare rispioste adeguate))
Da questo punto di vista il film che dovremmo avere di fronte per comprendere il “valore di lezione politica” che viene da Isaac, senza rapportarlo alla radicalità degli effetti sull’ambiente, non è 1999 Fuga da New York, ma The day after, il film che a metà degli anni ’80 si impose per richiamare violentemente l’opinione pubblica alle conseguenze della fine del patto civile in caso di disastro nucleare.

C’è una seconda questione su cui vale la pena riflettere, ed è la “solitudine” dei territori investiti da Isaac.
Finora non hanno chiesto di andare volontari. Nessuno nell’area del volontariato civile ha espresso il desiderio di aiutare. All’interno degli Stati Uniti non si è data una catena di solidarietà umana. Questo dato è interessante e sconvolgente se misurato sulla mobilitazione che nel 2001 coinvolse New York a partire dal momento stesso del crollo delle Twin Towers.

Come e perché si mette in moto una catena di solidarietà? Che cosa fa scattare un senso di dovere dell’altruismo? Che cosa ci fa dire in forme le più varie che non possiamo non esserci in un luogo?

Credo che all’origine di questo atto di solidarietà attiva, di partecipazione economica, di coinvolgimento emotivo stia ciò che consideriamo “mondo perduto”, ovvero “da salvare”, “da recuperare”. Non ci sono tesori, oggetti, simboli, palazzi, in breve valori da recuperare e da mettere in salvo nei territori investiti da Isaac? Operare per la loro conservazione ha un senso?
Se dovessimo interrogare la cronaca sembrerebbe di no. Non è anche questo il segno di forse dovremmo ripensare le movenze “egoistiche” di ciò che chiamiamo “cultura della” e “educazione alla” solidarietà?

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