“Giulia aveva bisogno di quel bambino. Lui non lo sapeva, aveva solo 36 settimane e aveva bisogno di tutto. Anche di una mano sulla schiena. Aveva passato la notte a gemere, inconsolabile e nulla, né il cambio di posizione, né i farmaci, avevano alleviato la sua misteriosa sofferenza nel silenzio dell’incubatrice. Poi Giulia gli aveva appoggiato piano la mano sulla schiena, e all’istante il piccolo si era tranquillizzato. Aveva trovato riposo, sotto una coperta viva che gli assicurava che qualcuno fosse lì per lui.
Parecchi centimetri più in alto Giulia per la prima volta sapeva di trovarsi nel posto giusto e al momento giusto. Glielo avessero chiesto qualche mese prima avrebbe scosso la testa; aveva fame del rapporto coi pazienti, per questo al terzo anno di università aveva deciso che doveva fare l’infermiera, stare al servizio delle persone, farsi compagna di speranze e paure più simili alle sue: cosa poteva dare a bambini così fragili, incapaci di gesti e parola? Ma poi era arrivato lui, la diagnosi di una malattia incompatibile con la vita e un mese di prognosi.
C’era voluto questo per insegnarle quale fosse il suo posto. Per insegnarle che contro certe malattie non si può fare a pugni e che tutto quello di cui aveva bisogno il piccolo era la stessa cosa di cui aveva bisogno lei: qualcuno che gli volesse bene. E Giulia era diventata creativa. Aveva iniziato a fargli compagnia. Durante il bagnetto infilava il tubo dell’ossigeno nell’acqua regalandogli bolle e sorrisi. Aveva detto ai genitori, per cui venire a trovarlo con altri figli fuori dall’ospedale era diventato difficile, “quando non ci sarete voi ci sarò io e gli vorrò bene”.
E lui le si era conficcato nel cuore, investendo la sua vita di figlia che torna a casa e chiede alla sua famiglia di pregare per questo bambino che la obbligava a custodire ogni bene ricevuto. Giulia c’è stata, coi suoi 23 anni e non solo per mettere in atto istruzioni nel caso in cui il piccolo fosse andato in arresto cardiaco. Lo ha imparato affiancando Patrizia, un piccolo tra le bolle e il suo destino doloroso che si stagliava all’orizzonte. Il compito, anzi, il commosso privilegio di esserci così come siamo, sperando, accanto a una culletta trasparente, dentro una culletta trasparente”. (Caterina Giojelli, Tempi, 19 settembre 2012)
Una storia vera. Ma non importa chi, dove, quando. Perché c’è un qualcosa di inafferrabile che va oltre i nomi, i cognomi, la via, la città. Giulia e tutto il reparto di Neonatologia raccontano ogni giorno tutti quei ragazzi e ragazze che, vestiti di verde, bianco e azzurro spiegano il senso della gioia sfiorata dalla sofferenza. Custodiscono la vita che esplode anche a 32 settimane, con la speranza addosso di potercela fare, di accompagnare un giorno la mamma con la sua carrozzina sulla porta dell’ospedale.
Lì, in quelle stanze, ogni giorno si respira la speranza. Speranza perché la vita dica di “sì”, ancora una volta, per quel bambino, quella mamma, quel papà che aspetta a casa con i fratellini. Ma se anche la vita se ne andasse, e per tutte le volte in cui se ne è andata, quella minuscola e fragile esistenza di poche settimane e di 1.500 grammi ha reso concreto e visibile un grande mistero: il dolore che racconta l’amore.
L’amore ha due occhi profondi, gonfiati dalle notti insonni e forse da lacrime piante in segreto. Ha un volto bellissimo, bello come sa essere un’alba, e una ciocca di capelli scomposta che mesi fa erano perfetti ma all’improvviso si sono spettinati. Ha due labbra ferme in un sorriso dolcissimo e quando si muovono per parlare è per emettere una voce che abbraccia, che scalda. L’amore ha la voce e il volto e gli occhi delle donne e degli uomini che silenziosi, come angeli caduti dal cielo, raccontano la storia più vecchia del mondo facendo del dolore un’occasione d’amore.
Perché la morte, il dolore, perché? Perché a me, adesso, perché? Non lo so, perché. È un mistero indecifrabile. E come si fa a lasciare da parte la disperazione per ingigantire il cuore con quelle cinque lettere? Non lo so, io. Amore è la parola più usata, sfruttata, sbattuta. Dicono di sapere cos’è e lo spiegano nelle canzoni, sui muri, nelle pubblicità. Ma spesso suona vuota come una moneta gettata per terra. Ci vuole una storia per riempire quella parola. Una storia struggente e bellissima come quella di Giulia.