Il marchese del GrilloChe poi, forse, la società civile non è meglio di questa politica

Forse la società civile non è poi meglio della tanto vituperata politica. Questo non vuol essere un peana a quanti abusano del proprio potere con ostriche e champagne. E nemmeno, ben inteso, una ba...

Forse la società civile non è poi meglio della tanto vituperata politica. Questo non vuol essere un peana a quanti abusano del proprio potere con ostriche e champagne. E nemmeno, ben inteso, una banalizzazione del ruolo di quelle associazioni che tanto ci rendono orgogliosi. Penso a Libera di Don Ciotti e Nando Dalla Chiesa, ai City Angels , alla Fondazione Abio che recluta volontari in tutta Italia per portare conforto nei reparti pediatrici degli ospedali. Potrei elencarne molte altre, mi fermo qui per limiti di spazio, sicuramente non di riconoscenza. Ma non posso fare a meno di provare un conato di vomito pensando a quanti hanno barattato, barattano e continueranno a barattare il loro voto in cambio della miseria di 50 euro. Il prezzo di una pizza e coca cola per quattro, in cambio della loro dignità. Perché il diritto di votare, per quanto schifo ci possa fare una certa politica, è un sussulto della dignità. Della dignità e della libertà.

E’ un problema che viene da lontano. Comincia nei seggi dell’Italia da ricostruire, «ti regalo l’altra scarpa se fai il segno sulla Dc», e si conclude con le non meglio precisate lobby calabresi che portano palate di voti a Zambetti. In mezzo sessant’anni di storia, di tessere gonfiate, di scambi e di favori. Di crisi che fan quasi credere, con una semplificazione, che l’Italia sia una repubblica democratica fondata sulla tangente. Tangenti, nella Milano da bere, che arrivano persino a coprire l’appalto per la distribuzione del tonno nelle mense scolastiche. Tutto nell’ombra. Come se nulla fosse. Do ut des. «Vai da quello che ti trova il lavoro, mi raccomando, però: votalo». E la più bella sublimazione della libertà, la libertà di votare (che nasce dalla libertà di parlar critico, che nasce dalla libertà di pensiero) viene scartata via.

E nemmeno capisco quel principio che vorrebbe il partito come intelligenza collettiva, quasi non esista una società fondata su «una testa un voto», ma una comunità di singoli asserviti ad un grido di battaglia. Lo spirito di servizio denaturalizzato, ogni gesto ricondotto ad una morale più alta, assoluta. Quante volte mi è capitato di sentire dalla viva voce dei militanti che «questo è giusto perché me lo chiede il partito», il partito che diventa testuggine. Pacchetti di voti da spartirsi tra questo e quel candidato entrambi della stessa corrente, un gruzzoletto di preferenze che si conoscono in anticipo, tanto per essere sicuri di non partire in svantaggio. Di casi del genere se ne potrebbero raccontare a migliaia. E fa scandalo pensare al soggiogamento di quei militanti disponibili a votare sotto specifica dettatura perché «io non sono nessuno rispetto al mio partito», facendo sì che frotte di impresentabili senza alcuna competenza riescano ad ottenere un posto al sole.

Sono casi diversi, certo. Nel primo è questione di malaffare, nell’altro è la fede cieca a far perdere la rotta. In entrambi, però, il voto viene svilito, annichilito, ridotto ad una massa acritica di nomi e crocette sopra un simbolo. E tutto questo perché ancora ci sono persone, cittadini del niente, con la foga di lucrare sul voto di altri cittadini del niente, disposti a dar via la propria dignità. E’ una dinamica culturale che non basterà una rivoluzione a sradicare. A nulla varrà aspettare la ghigliottina in Piazza Venezia con la flute di champagne tra le mani, come la vecchietta del promo di Servizio Pubblico (vedere per credere), per ridare voce e dignità ad un gesto che voce e dignità ha perso brutalmente. Perché, di mezzo, c’è la correità di governanti e governati, popolo arruffone e politica.

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