di DANIELE MARCONCINI – http://www.officinedemocratiche.it
Nel 1989 il “World Watch Institute” lanciava “la sfida dei 10 anni” : l’istituto americano sosteneva l’assoluta necessità di invertire alcuni trend fondamentali per fermare la crisi ecologica del pianeta con conseguente degrado sociale,economico ed ecologico di dimensioni tali da far apparire il prossimo millennio come un millennio “oscuro.
Questo grido di allarme dal mondo della scienza e della ricerca, fu la premessa per una acquisizione da parte dell’opinione pubblica mondiale,dell’ importanza dell’ambiente e della sua difesa, favorita da una forte accelerazione alla globalizzazione con la caduta in Europa dell’ultimo muro e della fine della “guerra fredda”. Ben presto presso l’opinione pubblica mondiale diventarono popolari grandi temi quali l’ effetto “serra”, il “buco dell’ozono”, l’utilizzo del nucleare, la difesa delle grandi foreste pluviali, l’inquinamento delle acque e degli oceani, la scomparsa di specie vegetali ed animali. Anche Italia ebbe un forte sussulto ecologista abrogando a stragrande maggioranza con un referendum nel 1987 le norme che consentivano la costruzione di centrali nucleari.
Un tema scottante a cui si aggiunse un confronto serrato tra industrie,popolazioni e territori sulla presenza inquinante di grandi insediamenti chimici come Marghera, Mantova, Ravenna, Ferrara, Manfredonia e Priolo inseriti nel colosso Enimont, simbolo dell’utilizzo del patrimonio industriale a fini partitici e “madre” di tutte le tangenti in Italia . Da allora sino ad oggi non è passato anno in cui non vi fosse una crisi ambientale tra il mondo della produzione e comunità, tra fautori di grandi opere pubbliche e difensori ad oltranza dei territori, tra cittadini e amministratori locali e nazionali su tutti i temi possibili dalla discariche ai rifiuti sino alla Tav e all’Ilva di Taranto.
Questa cronica mancanza di strumenti di gestione delle crisi ambientali, rappresenta la vera bocciatura di una intera classe dirigente politica nazionale e regionale,incapace di gestire e capire le dinamiche industriali, insofferente a dare nuovi strumenti di controllo a Sindaci e Comuni e soprattutto totalmente miope nell’ inserire il tema della partecipazione democratica dei cittadini alle scelte produttive impattanti sul territorio. Scelte quasi sempre preda di populismi e atteggiamenti demagogici da cui sono scaturiti movimenti di protesta ,facendoli poi diventare soggetti politici , come nel caso di Grillo e del Movimento 5 Stelle.
Ci troviamo quindi da anni ad avere a che fare con industrie spesso latitanti e sorde ad una riconversione .meno inquinante con il ricatto occupazionale sempre pronto, a Sindaci e Comuni privi di strutture e personale in grado di svolgere azioni di controllo (soprattutto sui cicli produttivi ) e in sede nazionale una perseverante dicotomia tra Ministero dell’Ambiente e delle Attività Produttive, le cui competenze spesso si intrecciano e che il più delle volte non convergono in azioni comuni necessarie per svolgere ,oltre che azioni di controllo, interventi impositivi laddove si inquina, limitandosi per farla breve all’applicazione del concetto che “chi inquina paga” ,aggirato facilmente dalle aziende con autorizzazioni ottenute con legislazioni precedenti, con cambi di ragione sociale, con ricorsi al Tar e a complesse argomentazioni sui cicli produttivi su cui il più delle volte la parte pubblica ,non riesce ad argomentare. Ed è a questo punto che nel nostro paese l’unico soggetto che riesce ad intervenire per smuovere le parti è la magistratura, il cui intervento se non accompagnato da una immediata attivazione delle parti interessate per trovare soluzioni concordate, può portare alla chiusura degli impianti industriali , innestando suo malgrado uno scontro sociale tra lavoratori e cittadini come all’Ilva di Taranto.
Interventi che quasi mai scavano nel passato, anche recente ,sulle responsabilità di coloro ,enti pubblici e soggetti competenti, che dovevano controllare od intervenire a tempo debito prima che si arrivasse all’ emergenza sociale e sanitaria. L’ulteriore conseguenza di interventi drastici della magistratura può portare inoltre, oltre che il danno economico ( in questo caso nazionale ) anche al parziale o totale danneggiamento del macchinario industriale o delle linee di produzione con la fermata dei cicli produttivi che ,oltre a dover essere messi in sicurezza, devono essere svuotati, bonificati con lo smaltimento spesso di migliaia di tonnellate di rifiuti, anche tossico nocivi in discariche speciali. Infine nei casi in cui,vedi poli chimiche “storici”, vi sono da fare urgenti bonifiche di terreni e di falde la chiusura degli impianti impedisce qualsiasi rivalsa nei confronti delle aziende inquinanti, le uniche in grado di svolgere le azioni necessarie per il disinquinamento ,spesso con tecnologie proprietarie che il pubblico non è in grado di mettere in campo.
Premesso questo non è impossibile gestire le crisi ambientali, a patto che vengano attuati preventivamente strumenti innovativi ,supportati da una legislazione altrettanto moderna ed efficace.
Uno strumento già esistente per prevenire le crisi ambientali, utilizzato in Italia in molte aree industriali è l’Emas, una certificazione ambientale che prevede l’adesione volontaria di aziende, enti locali e soggetti interessati ad un protocollo d’intesa per attuare un programma di miglioramento della compatibilità ambientale dell’area industriale interessata da comunicarsi regolarmente agli enti di controllo e ad un Forum di comunicazione che comprenda gli stakeholders di interesse pubblico (associazioni di categoria, ass di consumatori, associazioni ambientaliste).
Lo strumento specifico per la gestione del conflitti ambientali è invece il RAB , Residential advisory board ( Consiglio Consultivo della comunità locale) evoluzione di una legge del 1998 degli Stati Uniti (Environmental Policy and Conflict Resolution Act) che creava un istituto per la risoluzione dei conflitti ambientali che assistesse le parti interessate. Un Istituto fondato per essere un luogo neutrale dove interessi pubblici e privati potevano e possono ragionare e raggiungere accordi. Il RAB è stato sperimentato in Olanda presso il Polo petrolchimico Shell (500 ettari, 3300 addetti ,il più grande d’Europa), alla periferia di Rotterdam, coinvolgendo 450.000 persone residenti nelle circoscrizioni urbane circostanti .Esso è approdato a Ferrara per gestire il rapporto tra l’inceneritore e popolazione locale.Il Rab ha l’obbiettivo primario di appianare i conflitti che emergono nei processi decisionali relativi a proposta di localizzazione e successiva realizzazione di grossi impianti industriali ad alto rischio .Essi possono essere quindi efficacemente gestiti attraverso la partecipazione degli attori interessati, attraverso l’istituzione di canali di comunicazione.
Il Rab e’ quindi una forma organizzata di consultazione tra cittadini ed imprese ed ha lo scopo di promuovere la comunicazione e la trasmissione delle informazioni tra i cittadini e le strutture produttive locali e si applica dove un’impresa o un gruppo di imprese operano in un contesto urbano locale creando impatti ambientali e situazioni di rischio. In esso vi sono rappresentanti dei cittadini (tra cui viene eletto il Presidente) e responsabili competenti delle imprese, in qualità di parti interessate ,rappresentanti delle pubbliche amministrazioni locali e delle autorità di controllo con ruolo informativo (esperti delle pratiche amministrative e delle modalità di monitoraggio) e un Comitato tecnico-scientifico con il compito di supportare la discussione dal punto di vista tecnico. Anche quando Bersani era un buon ministro alle Attività produttive nel governo Prodi, ma non si è vista nessuna evoluzione nella gestione delle crisi ambientali: questo ha determinato una desertificazione del sistema industriale italiano e una distruzione dei Centri ricerca ad essi collegati.
E’ arrivato, sicuramente, il momento di cambiare e di rottamare l’incompetenza che da decenni impera nei partiti e nel Parlamento.