Maurizio Galluzzo insegna allo IUAV di Venezia. Si occupa di informatica e nuove tecnologie digitali nel campo della progettazione, della comunicazione e del marketing. Collabora con Confindustriale ed è autore di numerose pubblicazioni nel campo del software e delle nuove tecnologie integrate.
Il 2012 è stato l’anno del lancio di piattaforme online in cui le migliori università americane come Harvard, MIT, Stanford, Princenton, Caltech e tante altre offrono corsi gratuiti a studenti di tutto il mondo su modello MOOC. Coursera, Udacity e l’ultimissima EdX vengono vendute come progetti formativi innovativi orientati alla democratizzazione dell’istruzione superiore. Cosa ne pensa?
Sono degli interessantissimi esperimenti, ben realizzati ed efficaci. Va però subito considerato il fatto che il numero dei corsi disponibili è limitato e sono anche un’occasione di marketing per le università stesse. Permettono di trovare possibili talenti in giro per il mondo per poi farli entrare nel circuito della propria università.
Questi colossi, con la loro più aggressiva azione di marketing, riusciranno a cambiare il futuro dell’educazione come si propongono di fare?
Sul lungo termine il loro modello sarà probabilmente vincente anche perché aggrediscono fasce di possibili studenti che altrimenti non sarebbero raggiungibili. Io credo che serviranno anni perché, l’università prima ma gli studenti poi, capiscano che la strada del corretto mix tra formazione a distanza ed esperienze laboratoriali è vincente.
Quali crede che siano i punti di forza, ed eventualmente di debolezza attuali, della modalità MOOC, massive open online course, che sta alla base dei progetti di formazione suddetti?
I punti di forza sono certamente la disponibilità temporale e spaziale ma specialmente la gratuità. Io mi sono iscritto ad alcuni corsi per capirne meglio le specificità e devo ammettere che sono molto ben curati. I nomi dei docenti prestigiosi e i materiali a supporto completi. Il limite credo stia tutto nella capacità dello studente di dedicarsi in maniera motivata alla formazione singola e personale. Non è sempre facile perché siamo abituati ad ambienti allargati in cui gran parte delle nostre attività è la copia di quello che fanno altri. Ci vuole una forte motivazione. Per l’uso in Italia il limite maggiore sono la lingua e il costo di talune pubblicazioni che a mio avviso sono indispensabili. Ovviamente queste attività formative universitarie non sono riconosciute e sono quindi difficilmente spendibili in un mercato del lavoro come quello italiano in cui il titolo di studio è una variabile non indipendente nella scelta del lavoratore. Per non parlare della Pubblica Amministrazione ancorata nella scelta ancora a concorsi a punteggio che sono risibili in termini di qualità e capacità di selezione.
Cosa le differenzia eventualmente dalle università telematiche italiane istituite dal Miur nel 2006?
Sulle università telematiche, già il termine mi urta, si è molto pasticciato. Sono state pensate per i dopolavoristi e studenti che già facevano altro. Le lezioni sono semplici registrazioni prive di supporto realmente multimediale e non pensate esplicitamente per l’e-learning. Non si distanziano molto dai vecchi corsi del teledidattico degli anni ’90. Quello fatto con le videocassette e le trasmissioni notturne della RAI.
Perché in Italia non si parla di Università online come proposto dalle università americane?
No se ne parla perché il sistema universitario è fermo al modello del dopoguerra, perché i laboratori sono di fatto utilizzati il minimo indispensabile e perché non c’è alcun fattore che determini la competitività dei diversi atenei. Gli apporti delle imprese private nei progetti di ricerca sono limitatissimi e quindi le università non sono portate ad essere efficienti e competitive.