Il 2012 sarà senz’altro ricordato, in Italia, per i molti record economici negativi. Tra questi, leggendo i dati Istat, vi sarà anche il primato dei laureati disoccupati. Gli ultimi dati disponibili, infatti, parlano di 304 mila laureati in cerca di occupazione, con un aumento del 41,4% su base annua, che rappresenta il record assoluto da quando questi dati vengono monitorati.
E’ colpa della crisi economica? Certo, per usare un vecchio adagio inglese, quando il vento spira forte anche gli asini volano. Parlando di dottori, il paragone asinino potrebbe sembrare fuori luogo.
Ci sono, però, delle responsabilità assai più profonde, ci pare di poter dire, nella condizione insoddisfacente del mercato del lavoro italiano.
Commentare i fatti politici ed economici, in Italia, è spesso disarmante perchè ci si rende conto che i problemi sono certo irrisolti, anche se spesso non irrisolvibili, ma ancor più noti, evidenziati, e lasciati incancrenire. O, in alcuni casi, fatti, intenzionalmente o meno, peggiorare.
Basta così sfogliare una qualche buona antologia di saggi o commenti per trovare domande e risposte ai problemi d’oggi, scritte e dimenticate nella polvere molti anni indietro, quando venivano liquidate come reazionarie.
Così, nell’oramai lontano 1979, Rosario Romeo ammoniva l’opinione pubblica circa l’errore costituito dall’aprire le università a tutti. Più che un errore, un inganno.
Osservava il biografo di Cavour: “se dunque è così vasta e crescente la richiesta di specialisti dotati di una preparazione che esige, quanto meno, studi universitari, come accade che la disoccupazione intellettuale cresca a un ritmo anche più rapido, fino a diventare uno dei problemi più assillanti dell’Italia contemporanea?”
La risposta: “la sua radice principale sta forse in quella sorta di anticipazione psicologica dei risultati dello sviluppo economico che ha indotto a un rifiuto generalizzato del lavoro manuale prima ancora che nel nostro paese si creassero le condizioni atte a renderlo concretamente possibile […] Si è accreditata l’illusione che sin da adesso, o a partire da un avvenire assai prossimo, siano disponibili posti di lavoro intellettuale qualificato per tutti o per la grande maggioranza: e in questo modo si è alimentato un inganno di cui saranno vittime per primi proprio coloro verso i quali si ostentano queste false e disoneste aperture”.
Era vero, e non solo quando Romeo scriveva, che la società moderna offre la prospettiva concreta di eliminare molti dei lavori maggiormente gravosi e umilianti.
Ma occorreva precisare, già nel 1979, che questo poteva avvenire solo a due condizioni che risuonano ancor oggi nelle analisi del mercato del lavoro: la prima, costituita da un continuo e intenso aumento della produttività; la seconda, costituita dalla consapevolezza che non si dovrebbe confondere la liberazione dal lavoro manuale con la disponibilità di occasioni di lavoro altamente qualificato per tutti i richiedenti.
Su queste due condizioni si sono annidati, ed hanno prolificamente filiato, gli errori della politica universitaria italiana, di cui oggi sono ancor più evidenti i costi, rispetto ai tempi dell’analisi del grande storico siciliano.
Prosegue, infatti, Romeo: “una politica universitaria seria e onesta avrebbe dovuto sottolineare che la società moderna esige competenze sempre più rigorose e intellettualmente impegnative, e adottare quindi criteri di selezione sempre più rigidi, nell’interesse dei giovani e di tutta la società”.
Come sempre, in Italia, si è fatto l’esatto opposto di quello che il buon senso e la ragionevolezza avrebbero dovuto imporre.
“Si è cercato di dare soddisfazione al clamore demagogico contro la selezione […] e si è dato credito all’insensata pretesa di un diritto generalizzato agli studi universitari, aprendo tutti i possibili accessi all’università senza nessuna preoccupazione degli sbocchi”.
Diritto allo studio che una zodiacale e bulimica cultura dei diritti ha presto trasformato in diritto al titolo di studio.
Non possiamo soffermarci nell’indagare le origini di una simile degenerazione. Basterà dire che una buona mano deve essere arrivata da consolidati tic politici che la sbornia sessantottarda ha ulteriormente estremizzato: primo tra tutti il fraintendimento del concetto di uguaglianza. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, datata 3 novembre 1789 aveva affermato che tutti gli uomini sono nati e restano tra loro uguali nei diritti. Fu solo all’alba del Terrore che, in Francia, la nuova dichiarazione premessa alla Costituzione del 24 giugno 1793 proclamò che tutti gli uomini sono uguali “par la nature”. Dall’eguaglianza nei diritti, e fermo il presupposto della individualità, all’eguaglianza egalitaria, livellatrice, che dell’individualità non sa più che farsene e se ne sbarazza come di un intralcio.
Ma torniamo alla scuola ed ai suoi problemi.
Se l’avversario d’elezione di Romeo era l’ex senatore Tristano Codignola, il destino risparmiò al grande storico lo scempio successivo.
Se, infatti, nei plumbei anni settanta una cultura psico-pedagogica tanto insensata e priva di fondamento quanto pretenziosa, irresponsabile ed aggressiva aveva cominciato ad allentare i bulloni delle istituzioni formative italiane, fu con le riforme Berlinguer e Moratti, che gli ultimi colpi di maglio vennero assestati.
Vittime della dittatura del numero di laureati, i due Ministri fecero del loro meglio per svalutare il contenuto dei diplomi di laurea. Allo stesso modo con il quale si manda in malora una moneta, accendendo i torchi della stampa ed inondando il mercato di biglietti che più sono più riducono il loro potere d’acquisto, si è mandato in malora il fondamento del sistema di istruzione italiano. Identico, nei due casi, è anche l’inganno con il quale si illudono i possessori dei due diversi, ma molto simili, pezzi di carta: la banconota svalutata ed il diploma inflazionato.
Su un malinteso concetto di autonomia, si è consentita la proliferazione di micro-atenei provinciali, in cui l’illusione di una aumentata offerta formativa veniva realizzata mediante il reclutamento non di docenti di ruolo, ma di una pletora di contrattisti, o mediante l’abuso del vizio nominalistico, per cui gli stessi corsi venivano replicati ridefinendone i programmi e affidandoli ad un corpo docente sostanzialmente immutato.
Il tutto per riuscire a strappare alla concorrenza dei limitrofi micro-atenei qualche studente in più, necessario per potersi veder aumentati i fondi ministeriali. Nello stesso periodo in cui maggiori vincoli di bilancio imponevano, o avrebbero imposto, qualche buco in più sulla cinghia.
Con la conseguenza, economicamente inevitabile, che si è alimentata una concorrenza non virtuosa al ribasso da parte degli atenei, rendendo sempre più facile il percorso formativo ed abolendo la selezione. Come una corsa ad ostacoli in cui si siano prima abbassate, poi eliminate del tutto le asticelle. Anche qui, l’onda lunga della malintesa equazione tra selezione e discriminazione ha lasciato il suo malefico zampino.
Dal lato degli studenti, incolpevolmente ignari perchè sviati dal valore legale del titolo di studio, si è attivato un identico processo razionale ed efficiente: la corsa verso l’ottimizzazione, ovvero il maggior risultato (in termini di voto, in termini di tempo impiegato per concludere gli studi), con il minimo sforzo, in termini di dedizione allo studio.
Ci si obietterà: perché ve ne lamentate voi alfieri del liberismo economico? Non è forse questa una conseguenza delle Vostre predicazioni?
La replica, da parte nostra, non potrebbe essere più agevole. Noi non abbiamo nulla contro la scelta razionale ed efficiente degli studenti, a condizione che questa scelta non sia in radice alterata, come oggi avviene, dal feticcio del valore legale del titolo di studio, ovvero dalla garanzia dello stato che qualsiasi diploma riconosciuto abbia lo stesso valore, a prescindere dal rigore e dalla selezione vera o posticcia operata dall’istituto che lo rilascia. Solo abbandonando nella selezione dei candidati, e iniziando nel settore pubblico che contribuisce ad alterare di molto il mercato della domanda di lavoro, solo abbandonando, dicevamo, il criterio uniforme ed ingiustamente egualitario per cui un 110 preso in una qualsiasi università sia sempre buono alla bisogna ci si può aspettare che da una vera concorrenza tra atenei, ed offerte formative, possano emergere risultati virtuosi, anziché l’odierna gara al ribasso.
Quello da noi svelato è un segreto di pulcinella, una ovvietà che dovrebbe essere compresa non dagli studenti universitari di oggi, che sono incolpevoli vittime dell’inganno contro di loro ordito, ma da chi ha finito gli studi ed arranca per trovare una collocazione confacente. Un’ovvietà rispetto alla quale restano sorde le orecchie di quella che Hughes chiamava la cultura del piagnisteo del politicamente corretto.
Si smetta di far giudicare le università dagli studenti: questi continueranno, in buona fede, a giudicare sulla base del loro contingente interesse a fare in fretta e ad ottenere il massimo del voto. Si comincia a far giudicare le università dagli ex studenti, a distanza di cinque, di dieci anni dal conseguimento del titolo, quando il vero valore di quel pezzo di carta sarà stato sottoposto alla dura legge del mercato del lavoro.
Quella che noi invochiamo non è una università di classe.
E’ una università meritocratica, elitaria nel senso profondo del termine, consapevoli che non tutti hanno i talenti necessari per avanzare negli studi e che questi talenti non sono garantiti dalla bambagia familiare, dall’esser nati in ottime e facoltose famiglie.
Ci sono moltissimi invincibilmente stupidi ricchi, e moltissimi giovani di talento privi di mezzi. L’illusione di far accedere tutti all’università impedisce di espellere dalla selezione i primi, che avranno sempre i mezzi (primo tra tutti il pezzo di carta col sigillo statale), e le conoscenze, per sopravanzare sempre i secondi.
Non solo. L’università è oggi finanziata per la maggior parte tramite le imposte generali. Quelle che vengono pagate da tutti, indipendentemente dal fatto che i loro figli proseguano negli studi. Così, le persone meno capienti contribuiscono a pagare, con le tasse, gli studi dei privilegiati anche se inetti.
Con buona pace dell’equità, dell’uguaglianza, delle pari opportunità.