Matteo Renzi è un’ icona pop. Più simile a Madonna e Britney Spears che a Tremonti, raccoglie sentimenti viscerali. Non ci sono mezze misure, lo si ama o lo si odia. La razza del renziano a metà, un riconoscimento alla storia di D’Alema, un sorriso alla Bindi e mille elogi alla tenacia di Matteo, è un ossimoro. Allo stesso modo non è umanamente immaginabile, e certamente non lo sarà mai, un Little Monster (fan di Lady Gaga, per i meno avvezzi) che perde la voce cantando a squarciagola Like a vergin.
Certo, a questo punto avremmo dovuto capirla la lezione: la spettacolarizzazione della politica non porta da nessuna parte. Vent’anni in cui il canale principale di passaggio tra insiders (chi agisce nelle istituzioni) e outsiders (chi fa valere la propria posizione dall’esterno) era il salotto ciarliero del pomeriggio, dovrebbero averci insegnato parecchio.
E invece no, ci ricaschiamo, sostiene qualcuno. Siamo finiti di nuovo nella sindrome dell’uomo nuovo, la venerazione idolatrante come presupposto di ogni cambiamento. Qualcun altro, con un sforzo d’analisi in più, ribatte che così funzionano le campagne elettorali moderne. La diffusione virale dello slogan #oppurevendola, ripetuto come una preghiera dai giovani sostenitori del Governatore pugliese. Ma anche Obama, in fondo, da senatore di seconda fila che era, ha potuto varcare le soglie della Casa Bianca grazie ad uno sforzo mediatico poderoso. Bisognava essere presenti, lì, nel fermento della Chicago di quattro anni fa per rendersene conto. Magliette, spille, penne, tazzine, cover per i-phone. Il format dei manifesti che diventa un brand diffuso in tutto il mondo. Obama era, e in parte rimane, un’icona. Ricordo, una mattina a colazione, il mio sostegno appassionato alla causa democratica: più tasse per i ricchi, via dall’ Iraq, green economy, sanità universale. E la replica di un amico che avrebbe votato repubblicano: «Are you sure you want a rock-President?» («Sei sicuro di volere un presidente che sembra una rock star?»). Solo quello, solo una frase. Una frase che significa molto.
E’ il trionfo della spettacolarizzazione della politica, conta il tasso di gradimento del candidato. Ed è tanto più evidente quanto più le contese si restringono nell’ambito dello stesso schieramento. Con quel pizzico di sguaiatezza tutto italiano che tanto irrita. E dunque, chi non è con me, è contro di me. Chi si contende le primarie con il mio candidato, è un infiltrato della televisione. Oppure, nei casi peggiori, un fascistoide destrorso.
Se non mi piace, come nel caso delle migliori pop star, non comprerò il biglietto per il parterre. Non comprerò il suo disco, il suo libro. La sua arte mi farà schifo. Non lo voterò.
C’è una differenza, però, tra la politica spettacolo e la spettacolarizzazione della politica. La prima, quella a cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni, mette assieme nani e ballerine, soubrette e personaggi da cinepanettone. La spettacolarizzazione, no. Rende tutto più vivo, costringe il candidato-beniamino ad un confronto continuo col proprio elettore. Gli parla alla testa e non alla pancia. Semplifica il messaggio complesso, lo sminuzza in pillole. Mobilita energie che la politica spettacolo riduce all’apatia. Teniamocela stretta, finchè si può.