Città invisibiliDall’India il nuovo modello abitativo, la capanna tribale

L’Italia da tempo insegue. Anche in campo architettonico. Mentre nella patria dei grandi progettisti si costruiscono ancora grattacieli decostruttivisti, nel Sud del mondo l’architettura ipercontem...

L’Italia da tempo insegue. Anche in campo architettonico. Mentre nella patria dei grandi progettisti si costruiscono ancora grattacieli decostruttivisti, nel Sud del mondo l’architettura ipercontemporanea punta direttamente sul modello primordiale. A Roma, a ridosso dell’Eur, è imminente la torre Eurosky, grattacielo di 120 metri, disegnata da Franco Purini? A Venezia è in via di definizione il Palais Lumiére, la Torre di 255 metri, voluta da Pierre Cardin? A Milano, nelle zone di Stazione Garibaldi e dell’ex Fiera sono in costruzione diversi grattacieli? Tutto vecchio di almeno vent’anni. Dall’altro parte del mondo si è da anni reimmersi nell’essenziale. Nell’architettura delle origini. Al bando le sovrastrutture dell’iperdigitale e dei plotter. Dimenticando Thom Mayne, lo Steve Jobs dell’architettura e tornando a Palladio. E’ nuovamente il tempo di tronchi e dell’argilla. Dei materiali primitivi, insomma. Della struttura di una vera architettura. Un’architettura che nell’epoca della decostruzione sta trovando i suoi estimatori e l’attenzione di uno dei premi più ricchi del settore. Il BSI Swiss Architectural Award. Che dopo aver premiato il colombiano Solano Benitez nella prima edizione e l’architetto del Burkina Faso Diebedo Francis Keré nella seconda, ha assegnato quest’anno il riconoscimento allo studio indiano Mumbai, rappresentato da Bijoi Jain.
Tutti i premiati IBS, con differenze anche evidenti nella loro rappresentazione, sono costruttori di “capanne”. Progettisti di tipologie architettoniche fondamentalmente “elementari”. “Essenziali”, appunto. Tanto che sembrerebbero ispirate al Rousseau che sosteneva come purezza e virtù siano all’origine di ogni cosa. Che, dunque, ornamento e tecnologia, siano soltanto artefatti che introducono un’insulsa distinzione sociale. Una concezione che sembra ripresa tout court dall’abate Laugier. Il teorico dell’architettura, autore nella seconda metà del Settecento dell’Essai sur l’architecture. Un trattato che indicava nella capanna primitiva l’archetipo di ogni architettura.
A due secoli e mezzo da quell’elaborazione colonna, trabeazione e tetto, ri-diventano modello. Per la cui realizzazione l’architetto sceglie di riappropriarsi della componente, per così dire, artigianale, abbandonando il computer.
Lo studio Mumbai fornisce una lezione alle archistar internazionali, per le quali la ipertecnologia da strumento si è quasi trasformato in fine. La scelta di presentarsi come una equipe di architetti-artigiani, oltre a quella del nome (Mumbai, cioè una città tutt’altro che marginale nella geografia economica del nuovo secolo, piuttosto che Bijoj Jain, il fondatore dello Studio), elementi qualificanti. Precondizioni dell’atto progettuale. Nel quale risultano inscindibilmente connesse la fase dell’elaborazione e quella della sua realizzazione.
E’ però vero che le abitazioni dello studio Mumbai per le scelte operate negli interni si rivolgono esclusivamente all’iper-casta dei ricchi. Le soluzioni prescelte dimostrano aldilà dei proclami l’interesse di soddisfare le richieste di proprietari molto esigenti. Basta pensare alla casa Leti di Uttaranchal, a 2300 metri, sull’Himalaya. A dispetto della localizzazione, ben lungi dall’essere un bivacco d’alta quota. Anzi. Considerazioni analoghe le suggerisce la dimora Palmyra, a Maharashtra, sul Mar Arabico. Due capanne primitive che rimandano alle palafitte preistoriche. Forse anche al rifugio di Robinson Crusoe.
Le opere di Bijoj Jain e dello Studio Mumbai, in mostra alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia dal 22 settembre al 7 ottobre, sono anche il simbolo di un legame che l’architettura contemporanea ha spesso tralasciato di considerare in maniera adeguata. Quello tra l’edificio e il luogo. Ancora di più, la memoria del luogo. Rimane certo in questa operazione di segno sostanzialmente “positivo”, un’ombra. Quella di predicare il ritorno alla capanna tribale come risposta alle povertà diffuse. Ma di declinare questa idea fondante in modo elitario. Ricorrendo ad un artigianato per ricchi. Ad elementi che appesantiscono le ali ad un progetto non banale e potenzialmente vincente. Una buona idea che l’abitudine alle agiatezze lascia in parte inespressa. Quel che è indubitabile che in India l’Architettura prova a riscoprire la sua ragione sociale.

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