In una Repubblica fondata sul lavoro nessuno può ricoprire due incarichi finché vi è un solo disoccupato.
Equità e lavoro: due termini antichi, abusati negli ultimi tempi. Il primo è, in fondo, una categoria dello spirito. Svolse nell’antichità una mera funzione catalizzatrice nel sistema giuridico, quale correttivo delle norme esistenti e come criterio ispiratore di nuove regole. In seguito assunse – e svolge tuttora – una funzione giurisdizionale, sia pure sussidiaria e limitata. Ma vive, nell’immaginario collettivo, come fattore di giustizia sostanziale e, come tale, viene invocata – quando non demagogicamente sbandierata – per dirimere situazioni di grave sperequazione sociale.
Il lavoro, a sua volta, ha una storia antica quanto l’uomo. Considerato, nella concezione cristiana, quale fonte di edificazione e di vita, è stato visto, pragmaticamente, quale momento essenziale di partecipazione dell’uomo alla vita associativa e, quindi, nella visione marxista, quale fattore primo del processo produttivo.
E su di esso si fonda la nostra Repubblica democratica. Ma come entrano in rapporto due categorie apparentemente così distinte? Entrano in rapporto perché l’equità, nell’accennata funzione catalizzatrice, diventa – stante l’inadeguatezza legislativa – criterio guida per elidere o attenuare le disuguaglianze che caratterizzano il mondo del lavoro, tra le quali due sono fondamentali.
La prima è rappresentata dalla forte disuguaglianza delle retribuzioni (delle quali entrano a far parte indennità di ogni genere). Nel nostro Paese vi è, infatti, chi percepisce una paga o uno stipendio molto basso, addirittura insufficiente a soddisfare i bisogni primari della persona e della famiglia (e sono i più!) e chi, per converso, percepisce, spesso senza merito, paghe milionarie (e sono molti, troppi!).
Sul punto, è sufficiente ricordare la parabola dei lavoratori della vigna, gli ultimi dei quali hanno la stessa mercede che i primi, per rendersi conto dell’importanza assoluta del lavoro e, conseguentemente, dell’obbligo di assicurare ad ogni lavoratore il giusto corrispettivo. La seconda sperequazione – ed è la più grave! – è costituita dal fatto che mentre molti non trovano lavoro, almeno altrettanti ricoprono due o più incarichi retribuiti.
Ciò non è ulteriormente tollerabile. Occorre affermare – e , più che affermare, rendere operativo – il principio che nessuno, in uno Stato democratico fondato sul lavoro, ha il diritto di ricoprire due (o più) incarichi retribuiti finché vi è un solo disoccupato.
Paradigma, questo, rispondente, prima ancora che ad un dettato costituzionale, al principio di equità. Deve essere statuito il principio che la partecipazione del dipendente pubblico, di qualsiasi livello, a commissioni (anche di esami) , arbitrati, commissariamenti vari (anche ad acta), partecipazione a consigli di amministrazione di società partecipate, prestazioni, cosiddette “a scavalco”, etc, deve rientrare nell’ambito dell’attività funzionale ricoperta.
D’altronde, partecipazioni del genere non si svolgono normalmente durante le ore già retribuite? Sulla direttrice della prospettata esigenza di perequazione salariale (nel senso che devono essere ridotti, gli stipendi elevati, con giudizio di congruità rapportato ai livelli minimi salariali) non può costituire motivo di impedimento il ricorso all’istituto del “diritto quesito”, in considerazione del fatto che la generalità – se non la totalità – dei trattamenti economici privilegiati, spesso addirittura milionari, sono il frutto di provvedimenti autarchici , quando non addirittura domestici o clientelari e, come tali, illegittimi.
Superfluo sottolineare l’enorme risparmio di spesa pubblica e la conseguente possibilità dello Stato di incentivare iniziative imprenditoriali futuribili, destinate a ricollocare il paese tra le nazioni più avanzate del mondo. Nel contempo avrebbe inizio un processo virtuoso – questa volta pilotato dallo Stato – di riscoperta del lavoro stabile e duraturo, destinato ad incidere decisivamente sulla piaga della disoccupazione.
Si tratterebbe, in sintesi, di varare una riforma semplice, ma dai molteplici effetti positivi, costituente un primo significativo passo sul piano di una più generale riforma della Pubblica Amministrazione. Per attuarla non occorrerebbero grandi mezzi ma solo – ed è questo il punto! – un’alta coscienza civile e morale da parte del legislatore.
Una innovazione del genere costituirebbe un primo sicuro decisivo passo sul terreno di una riforma dello Stato presidiata da reale volontà di difesa delle istituzioni democratiche in spirito di giustizia sostanziale e di umana solidarietà. Ma i prossimi responsabili politici avranno la volontà e la forza morale per attuarla?
Antonio Coppola