Oggi è una bella giornata, di quelle sospese tra passato e futuro nonostante vorresti goderti solo il presente. C’è il bagaglio dei ricordi passati, la folla di Grant Park, melting pot di lingue e lacrime, telefonini bollenti di chiamate in tutto il mondo. Il maxischermo mostrava il suo sorriso un po’ stordito. E lui, Presidente eletto, che riuscivo a vedere solo di lato nonostante i pochi metri dal palco. La stanchezza mia e degli amici con me, la giornata passata a telefonare in lungo e in largo nei toss-up states, gli stati in bilico, cornette sbattute in faccia da repubblicani arrabbiati: «Io un musulmano alla Casa Bianca non lo voterò mai». Poco importa se la teoria del complotto è stata smentita non solo dal diretto interessato, ma anche dal suo rivale John McCain. Cresceva la coscienza che la storia avesse fatto tappa lì, insieme a me. Forse, con una masturbazione mentale, che io stesso fossi la storia, o almeno un bruscolino. Perché se non fosse stato eletto il primo presidente nero, col cavolo che quell’oceano di persone, un milione o giù di lì, avrebbe inondato Grant Park. Erano i tempi della speranza, hope, yes we can. I tempi in cui «we are not as divided as our politics suggests» («non siamo così divisi come vuol far credere la nostra politica»), «we are not red states or blue states. We are, and always will be, United States of America» (noi non siamo formati da Stati rossi, repubblicani, o Stati blu, democratici. Noi siamo e sempre saremo, gli Stati Uniti d’America).
C’è che oggi soffia vento contrario: navigare si può, ma l’avanzata è più difficile. Io che vorrei essere ancora lì, ma sono tornato a casa da un pezzo, e i risultati tocca seguirli dalla tv. La crisi che pare più un cambiamento definitivo, l’ondata di Occupy e la scelta tra il 99% o il restante 1%. L’Europa che c’è e non c’è, convitato di pietra in questa campagna al fulmicotone. L’assistenza sanitaria gratuita che manca in nome del liberismo selvaggio. Le grandi tragedie: la pallottola a Gabrielle Giffords e le coste della Louisiana oscurate dal petrolio della Bp. Il girone infernale di Guantanamo che non chiude nonostante le promesse. C’è tanta sfortuna in mezzo, la Camera dei Rappresentanti nelle mani degli avversari conta eccome. C’è che per tutto il primo mandato pende la spada di damocle della riconferma. Nel secondo gli spazi di manovra sono maggiori. E’ vero: la metafora degli stati rossi (repubblicani) e quelli blu (democratici) non funziona più come quattro anni fa. La vittoria è risicata: vince dove deve vincere, e perde negli Stati in cui la sconfitta è ampiamente prevista. L’elettorato è quello classico: neri, donne, giovani, omosessuali, latinos e pezzi di middle class. Niente fuochi d’artificio, ma il mondo ha trovato una luce. Un leader che viene riconfermato, come non era accaduto alla gran parte dei suoi colleghi Europei, da Brown a Sarkozy. «The best is yet to come» («il meglio deve ancora venire»), come ha ricordato l’Obama della vittoria. L’Obama che incanta ed emoziona. Che nei prossimi quattro anni darà il meglio di sé.