DialogandoProcedimento di conciliazione, riforma epocale a rischio per un nonnulla

Sul procedimento di conciliazione: una riforma epocale che non deve essere cancellata per un vizio di forma La Corte Costituzionale ha recentemente dichiarato l’incostituzionalità, per eccesso di d...

Sul procedimento di conciliazione: una riforma epocale che
non deve essere cancellata per un vizio di forma

La Corte Costituzionale ha recentemente dichiarato l’incostituzionalità, per eccesso di delega, del Decreto Legislativo 4/3/2010 n. 28, nella parte in cui ha previsto il carattere obbligatorio della conciliazione.

Detta pronunzia – fondata su un vizio di forma – offre lo spunto per alcune considerazioni di fondo.

Innanzitutto, preoccupa che l’istituto della mediazione sia stato accolto, ora con sufficienza ora con contrarietà, anche ad opera di una parte dell’avvocatura che pur avrebbe dovuto coglierne lo spirito fortemente innovativo.

Nel merito, poi, il processo ordinario si fonda su regole procedimentali rigide e sul diritto e, pur indicando, alla fine, un vincitore ed un vinto, quasi sempre, per i modi, i contenuti esasperati e, soprattutto, per i tempi, risulta deludente per entrambe le parti. Quello conciliativo, invece, è (come previsto dal Decreto annullato) privo di regole rigide e formalismi esasperati, si fonda sulla valorizzazione dell’interesse delle parti e, garantendo equilibrio e trasparenza, assicura un risultato di giustizia più economico, rapido ed efficace che, alla fine, avvantaggia entrambi i contendenti.

Esso, peraltro, essendo sostanzialmente affidato alle parti, sottrae l’amministrazione della giustizia ai rischi propri di una gestione elitaria e corporativistica, popolarizzando una funzione che, per i fini sociali che le sono
propri, non può che appartenere agli stessi suoi ultimi destinatari, vale a dire ai cittadini.

Non a caso la mediazione ha un crescente radicamento a livello europeo e transcontinentale e trova la sua massima espressione in Paesi ad elevato tasso di democrazia avanzata.

È ormai giunto il momento di adeguare la grande tradizione giuridica del nostro Paese alle esigenze di una società che, proiettata in tutte le sue essenziali manifestazioni oltre i confini localistici ed i paletti di un sistema
giuridico paralizzante, reclama una giustizia alternativa in linea con l’etica di una società avanzata e con il processo di globalizzazione dell’economia in atto da tempo.

Il processo ed il giudizio non saranno più visti, da oggi in poi, come una proprietà lontana ed imperscrutabile, affidata alla volontà – quando non all’arbitrio – altrui, ma come terreno di confronto paritetico tra le parti, fonte
di chiarimento e di riconciliazione piuttosto che fattore di penalizzazione, talvolta incomprensibile, e, spesso, di acutizzazione del dissidio.

Ed il mediatore – soggetto terzo, qualificato ma del tutto privo di potere decisorio, chiamato a svolgere una funzione catalizzatrice nell’ambito di un procedimento rapido e trasparente, che vede le parti protagoniste – sarà
visto come un amico comune, impegnato a ricercare una soluzione voluta dai contendenti e, quindi, gradita.

E questo amico – che sa che, oltre al diritto, esiste l’interesse e che quest’ultimo non sempre coincide con il primo (nel senso che spesso è opportuno ed utile che la parte consideri tutta la serie di fattori che consigliano
una soluzione concordata della questione senza attestarsi rigidamente sulle posizioni di diritto) – agirà con assoluta probità ed equidistanza dalle parti. In tale veste, le chiamerà a rifiutare la tentazione di far valere il proprio diritto ad ogni costo; le spingerà a non considerare la controparte un avversario da sconfiggere, quasi un nemico da distruggere, ed a non vedere nel processo uno strumento di affermazione (quando non di vendetta) e di, sia pur effimera e malintesa, soddisfazione; le guiderà verso la consapevolezza di avere, anche se in minima parte, contribuito, se non concorso, a creare i fattori che hanno portato alla lite; le aiuterà a comprendere che il raggiungimento di un accordo immediato, potrà, riducendo comunque il danno derivante dal torto, consentire di superare la questione, evitando ancor più dannosi processi di involuzione; le inviterà a meditare, con spirito di umana solidarietà, sulla gratificazione che può derivare da un accordo rispetto ad una decisione finale imposta coattivamente alla controparte.

Noi abbiamo, finora, nel giudizio ordinario, agito ed operato solo nell’ambito della prima sfera, quella del diritto. Secondo questa concezione, che importa se la nostra azione giudiziaria comporta alla nostra controparte un danno, senza procurarci un apprezzabile vantaggio? E non è forse vero che, costringendo il nostro avversario ad una difesa ad oltranza, il nostro diritto sarà riconosciuto – nella migliore delle ipotesi – solo a distanza di anni, se non di decenni? Ed il risultato non cadrà, conseguentemente, in un contesto socio-economico del tutto mutato, al punto da veder ribaltate le posizioni del vincitore e del vinto (nel senso che il vinto può, alla fine, essere avvantaggiato più del vincitore)?

Non abbiamo, su questa direttrice, mai pensato a rinunciare ad una parte del nostro diritto per evitare alla controparte un danno gratuito o insopportabile; d’altronde quel sistema non solo non ci induceva a farlo ma non ci consentiva di farlo: perché il diritto è il diritto, non consente e non ammette compromessi.

Non a caso i Romani ne hanno colto i limiti (summus ius, summa iniuria), pur non trovando la forza di modificarlo, individuandone uno alternativo. Ma erano secoli di spinto individualismo, di affermazione della personalità al di là e, spesso, contro valori essenziali dell’uomo (si pensi al condottiero che non esitava a sacrificare il figlio, reo di non aver servito adeguatamente la patria). Erano secoli nei quali si reagiva al fatto ingiusto altrui animati da un’ira distruttiva, da un desiderio di vendetta che superava i limiti della riparazione.

Ed il sistema giuridico nato da quella cultura non poteva – pur con le attenuazioni ed i correttivi apportatidall’evolversi nei secoli della società e dei costumi – non risentire di questa impronta genetica, facendo perdurare un sistema giuridico a vocazione punitiva, presidiato da sentimento di rivalsa, molto vicino a quello dell’ira distruttiva.

Quel sistema di diritto è stato tramandato nei secoli per pervenire fino a noi ancora connotato da una rigidità quasi sempre eccessiva ed ha finito per il diventare, piuttosto che uno strumento di equilibrio e di rappacificazione, un fattore di incentivazione dei conflitti interpersonali e, quindi, di crisi sociale. Sul piano pratico ha, infatti, comportato una proliferazione ormai incontrollabile dei giudizi ed una conseguente, del pari incontrollabile, dilatazione dei tempi di loro soluzione che hanno, come cennato, sostanzialmente del tutto vanificato i fini prefissi dal legislatore.

La disciplina della conciliazione, per converso, presuppone ed implica, di fronte al fatto ingiusto altrui, una reazione presidiata da uno scopo conciliativo, che indirizza la reazione irata verso un risultato di rappacificazione e, come tale, appare espressione di un sentimento profondamente cristiano, fattore di
gratificazione e di progresso individuale e sociale.

Il procedimento di conciliazione è chiamato a svolgere, nella fase iniziale, un ruolo di sussidiarietà del processo ordinario, al fine di attenuare i segnalati fenomeni di appesantimento e di ingestibilità dello stesso.

Ma detto ruolo, progressivamente, è destinato a trasformarsi in quello di una mera giustizia sostitutiva, perché, come è dato vedere, siamo in sintesi, di fronte ad un procedimento che si connota di valori reali e permanenti
essendo in grado di superare, tra le due sfere concentriche di scolastica memoria, quella del diritto (che porta al successo, non sempre, come  nzidetto, soddisfacente e rispondente alla equità ed agli interessi attuali delle parti) per svilupparsi su quella della morale, ben più qualificante e, già solo per questo, prioritario ed utile.

L’istituto della mediazione, in sintesi, reclama ed esige – per usare, attagliandosi perfettamente al tema in esame, la mirabile metafora recentemente dettata dal Presidente della Corte dei Conti Gianpaolino,
nel commento al messaggio del Capo dello Stato dalla Casa di Giustino Fortunato – “un equilibrio dello spirito, un’armonia ritrovata, che significa serena predisposizione verso gli interessi in gioco ed il loro contemperamento; approccio di mediazione tra valori e spinte che appaiono contrastanti, sicché la soluzione dei problemi sia un grande trapasso dall’una all’altra realtà, senza lacerazioni e ferite deturpanti”.

Concetto scultoreo, dalla portata perenne ed universale, destinato a segnare l’indirizzo e la vita di questo nuovo sistema alternativo di rendere giustizia, caratterizzandolo, così, quale fattore di sviluppo e di progresso della
società nel pieno rispetto della stabilità istituzionale.

2Ecco perché l’introduzione nel nostro sistema giuridico del procedimento di conciliazione è un fatto epocale, destinato ad accompagnare la società verso un futuro di progresso, svincolandola dai lacci di una giustizia esclusiva, elitaria, corporativistica, lenta e paralizzante.

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