A mente freddaFine anno, tempo di bilanci. Anche per la politica universitaria

La fine dell'anno è sempre un momento in cui si tirano le somme dei mesi appena trascorsi. Nell'attuale situazione politica, ciò è tanto più utile, visto che il torno del 2012 corrisponde sia alla ...

La fine dell’anno è sempre un momento in cui si tirano le somme dei mesi appena trascorsi. Nell’attuale situazione politica, ciò è tanto più utile, visto che il torno del 2012 corrisponde sia alla fine di un’esperienza di governo, sia alla conclusione dei maggiori impegni di una legislatura drammatica, destinata comunque ad essere sostituita da un quadro delle forze parlamentari piuttosto diverso dall’attuale.

Per quanto riguarda la politica universitaria, un tentativo di sguardo generale a quanto fatto negli ultimi tempi e di previsione sugli orientamenti del prossimo futuro è stato tentato qualche giorno fa sul magazine specializzato online University World News. In estrema sintesi, l’autrice ha potuto individuare risultati piuttosto scarsi e molto settoriali nell’azione del ministro Francesco Profumo: la proposta di riforma dei dottorati di ricerca e l’introduzione di una graduatoria nazionale per i test di ammissione a numero chiuso saranno sicuramente progetti ripresi dal suo successore, visto che rappresentano soluzioni piuttosto ovvie, e in ogni caso parziali e insufficienti, a due anelli deboli della nostra formazione superiore. Ma i temi di maggior impatto strutturale che i suoi predecessori avevano lasciato irrisolti, ovvero l’individuazione di un percorso di stabilizzazione dei precari della ricerca e la ricostruzione di rapporti tra formazione universitaria e un mondo del lavoro effettivamente aperto e pronto a puntare sull’alta qualificazione, sono rimasti libri chiusi per un ministero che, nei fatti, si è mostrato inconsistente e incapace di andare più il là della curatela fallimentare della riforma Gelmini, pur nel periodo non brevissimo di attività di circa 14 mesi.

Su questa agenda di massima per il successore di Profumo pesa però il bilancio 2013 per le istituzioni universitarie, che per ora garantisce il 25% di quanto necessario al funzionamento ordinario. La notizia ha provocato la reazione del ministro, ripresa da tutti gli organismi rappresentativi del mondo universitario, e anche una preoccupata presa di posizione dell’ANVUR, che ha fatto bene o male (più questo che quello) un lavoro di valutazione che l’assenza di soldi per alimentare il sistema oltre lo stato vegetativo rende inutile. Viene però da chiedersi da dove derivi, solo adesso, la sorpresa: In una precisa linea di continuità con le scelte dell’ultimo decennio, l’obiettivo fondamentale della legislazione promossa dalla Gelmini a fine 2010 era esattamente quello di ridurre il costo dell’università; chi ne ha promosso l’applicazione secondo le linee direttrici originarie, senza revisioni e ripensamenti profondi e senza l’elaborazione di una proposta altetrnativa di seria revisione degli equilibri di gestione degli atenei, ne è innanzi tutto complice, non meno di chi vi si opponeva proponendo una pura e semplice restaurazione dell’esistente spacciandolo per una grande battaglia ideologica nella titanica lotta delle classi oppresse contro il capitalismo; come se non bastasse non si sono alzate tutte queste proteste quando ventimila ricercatori esperti e produttivi, oltre il 50% degli studiosi che per puro accidente non hanno un posto di ruolo garantito, hanno dovuto smettere di lavorare.

Posto che qualche santo provvederà a pagare gli stipendi agli strutturati, che lavorino o no, e che il default di un bel po’ di sedi, che forse sarebbe anche salutare visto a chi toccherebbe, non avverrà, resta il fatto che in queste condizioni le risorse minime per la sopravvivenza di un servizio che non può essere in alcun modo ridimesionato, e che anzi per un paese sviluppato è già troppo striminzito, saranno già una conquista nelle trattative per la riscrittura della legge di stabilità. Possiamo quindi scordarci i fondi per garantire contemporaneamente la gestione di un esistente che per legge non può essere intaccato anche (anzi, soprattutto, ché altrimenti le tutele di legge sarebbero meno indispensabili) quando non funziona e la creazione di strutture che effettivamente funzionino secondo le linee direttrici impostate sopra.

Anche il governo successivo, quindi, difficilmente potrà andare al di là della semplice gestione dell’esistente, che garantisce i garantiti eventualmente restringendo lo spazio agli altri. E visto che con tutta probabilità il prossimo governo vedrà il suo centro motore nel PD, “cappello” politico naturale di quasi tutti i gruppi di potere corporativo all’interno degli atenei, non credo che questa costrizione a gestire l’esistente sia vissuta come una tragedia. Il mondo universitario che si è mosso attorno a Bersani, in buona o in mala fede, è essenzialmente quello che si è fatto alfiere della tradizionale sovranità dei docenti nel valutare le loro scelte di ricerca e la loro selezione dei collaboratori, e della loro protezione da qualunque forma di controllo da parte di quel corpo sociale che mette a disposizione i fondi per la loro sopravvivenza, attraverso un (più o meno ingenuo) uso improprio della retorica della denuncia dell’attacco “neoliberista” sul sapere accademico volto a conservare proprio quelle pratiche che uno dei maggiori esponenti degli studi progressisti sull’università, Davydd Greenwood, ha definito socialmente “autistiche”.

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