Al primo weekend nelle sale italiane, l’ultima commedia di Ken Loach. Qualche buona ragione per andare a vederla, nella recensione
Ci sono diverse buone ragioni per andare a vedere La parte degli angeli al cinema questo weekend. Ad esempio, evitare di gonfiare i numeri previsti ed effettivi di spettatori e incassi per Lo Hobbit. Una lotta titanica (750 copie per il film di Peter Jackson, 20 per quello di Loach) ma necessaria: ridurre se possibile la frenesia nerd di orde di fanatici per l’ennesimo film evento – ce n’è uno ogni anno ormai. E dire che a me i piedi pelosi piacciono parecchio.
Oppure, riascoltare questa canzone. No, non ci vedete doppio: The Proclaimers è una band guidata da una coppia di gemelli identici. I’m Gonna Be (500 miles) (1988) è il loro maggiore successo fuori dalla Scozia, con una lunga fama sia nel cinema sia in TV: forse vi ricorderete di loro nella (meravigliosamente nostalgica) puntata Arrivederci Fiero della serie CBS How I Met Your Mother. Se poi avete voglia di concentrarvi sulle sottigliezze, badate a come i gemelli Reid pronunciano out e thousand: ecco, quella è la parte più evidente dell’accento scozzese.
Già, perché l’ultima commedia di Ken Loach è ambientata a Glasgow, e se il doppiaggio italiano non rovinasse tutto (assegnando al protagonista Robbie un’improbabile vocetta giovanilistica) si potrebbero apprezzare le sfumature dei dialoghi, delle battute e degli insulti – già si ride con l’italiano standard, vi lascio immaginare quanto si casca dalla sedia lasciando il dialetto al suo posto e sottotitolandolo.
La storia (sceneggiata dal socio storico di Ken Loach, Paul Laverty) è questa: criminale di piccolo cabotaggio, Robbie (l’esordiente Paul Brannigan, che viene proprio da quegli ambienti) vede commutata la sua pena in 300 ore di lavori socialmente utili perché sta per diventare padre. Alle sue calcagna ci sono non solo i vecchi soci in affari (loschi), ma anche la famiglia della sua compagna, che farebbe volentieri a meno di un genero come lui. Ma Robbie vuole dare al figlio una vita migliore della sua, e un talento inaspettato gli offre occasione per cambiare: il sorvegliante Harry infatti scopre che Robbie ha un olfatto sopraffino per riconoscere e valutare whisky pregiati. Introdotto nel circuito delle degustazioni e delle aste, Robbie sembra aver trovato la sua strada, ma la tentazione dell’ultimo colpo è dietro l’angolo…
Il trailer originale del film.
Il trailer doppiato in italiano.
Sulla carta, La parte degli angeli contiene tutti gli elementi per sfociare in tragedia: disoccupazione, microcriminalità, giovani allo sbando in una Glasgow senza prospettive. Senza addolcire la pillola (gli inseguimenti e i coltelli non mancano), Loach decide di raccontare la storia di Robbie e dei suoi improbabili soci in affari con i toni lievi della commedia, quasi della farsa. Innaffiandola di spirito, non solo alcolico, e trascurando drammi e sentimentalismi che poco si addicono alla working class scozzese. Dopo gli scricchiolii drammatici e rabbiosi di Route Irish, Ken il rosso è tornato a fare una delle cose che gli riesce meglio: un film contemporaneo, che pur divertendo riesce a raccontare la lotta quotidiana di un’umanità minore e dimenticata, imprigionata in un sistema di potere ingiusto.
Se tutto questo non bastasse, l’ultima ragione per andare a vedere La parte degli angeli è la mancata anteprima al Torino Film Festival lo scorso 26 novembre, quando Ken Loach ha disertato la consegna del Gran Premio Torino alla carriera. Una protesta contro condizioni contrattuali ingiuste e licenziamenti senza motivo (chiamati “allontanamenti”, perché i dipendenti in una cooperativa si chiamano “soci”) al fianco dei lavoratori della Rear, la società che ha in subappalto la pulizia e la sorveglianza del Museo del Cinema nella Mole Antonelliana.
La Stampa, Repubblica, il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano hanno commentato variamente la vicenda, su cui al solito cala la nebbia del “travisamento dei fatti”: non è vero, siete stati malinformati, e via allontanandosi dalla realtà. Ma, come fa notare giustamente lo stesso Loach nella lettera di rifiuto, in gioco non c’è una questione di legalità (nel senso di mero rispetto delle leggi sul lavoro), bensì di giustizia dei principi che ispirano quelle leggi e delle storture che possono generare.
Quando la notizia di è diffusa, un mio amico su Facebook ha scritto come status, semplicemente, “compagno Ken.” Poteva fare una dichiarazione critica, poteva scrivere ai giornali, rilasciare interviste e continuare a fare film sullo sfruttamento nascosto nei subappalti e nelle cooperative: invece, Loach ha deciso di rinunciare alla gloria di un premio usando l’assenza dal palcoscenico per dei fini più nobili e più giusti. Con buona pace degli organizzatori e dei direttori artistici feriti nell’orgoglio, in un Festival che da anni assegna il premio Cipputi e poco o nulla sa della vita dei lavoratori nelle sue strutture.