L’ironia è parte, da sempre, dell’arsenale retorico classico. E’ sufficiente sfogliare un moderno manuale della materia per trovarla elencata tra le figure retoriche; ma non solo, la sua plausibilità come strumento attivo di argomentazione risale alla filosofia classica. Parmenide, Socrate, Aristotele offrirono, tutti, declinazioni finemente modulate del concetto, e fra i “moderni”, Schlegel e Kierkegaard ne fecero addirittura una lente esplicativa della realtà umana.
Inutile dire che l’ironia che incontriamo nella comunicazione contemporanea è molto diversa da queste declinazioni; è più scanzonata, disimpegnata, appiattita su un obiettivo di portata inferiore, catturare l’attenzione dello spettatore e ben disporlo. A cosa? Alla persona, al prodotto, al messaggio successivo, alla fruizione mediatica.
Gli spot pubblicitari che ammiccano ironia arguta non si contano, ma anche certa comunicazione, tradizionalmente più compita, ha iniziato a farne uso.
E’ il caso dei telegiornali che hanno preso l’abitudine di chiudere la loro sequela giornaliera di servizi truculenti con reportage su frivolezze più o meno accompagnate da arguzie da deejay radiofonici. E’ il caso delle testate informative online che accompagnano costantemente in home page le notizie “serie” con curiosità divertenti. E’ il caso, in ultimo, della comunicazione politica che, soprattutto ultimamente, sta spingendo forte sulle abilità comiche (o presunte tali) dei propri protagonisti.
Per Berlusconi è un’escalation che dura dalla sua “discesa in campo”. Tanto ha innovato nella sua televisione quanto sta innovando in politica. La sua istrionica affabilità è una risorsa, una modulazione di frequenza con cui entrare subito in sintonia con il suo elettorato. Lo schema è semplice: sorriso-battuta (spesso crassa)-riso-ritorno agli argomenti seri. Ubriacato dal fascino dell’uomo potente (già ammirato per il successo economico) che scende al suo livello scherzando come al bar, il suo elettore medio è pronto a seguirlo ovunque.
Non solo, si tratta di una sorta di coltellino svizzero di cui Berlusconi fa uso un po’ in tutte le situazioni: ci si cava d’impiccio in caso di domande scomode, ci condisce i suoi attacchi politico-giudiziari (che altrimenti rischierebbero di suonare un po’ sghembi e deliranti) o lo usa come colpo del KO su avversari già cotti (Santoro, anyone?).
E’ inoltre una specie di marchio di fabbrica intorno al quale costruire l’intera immagine dell’uomo di potere. Che poi questo, in altri ambiti, funzioni poco (politica internazionale) è un altro discorso.
Più sorprendente è che a questo stile si pieghi Bersani i cui spin doctor sembrano aver dato istruzioni precise su quanto e come scherzare e su quanto e come prestarsi a scenette comiche e parodie varie. Aiutato dall’accento e da una certa fisionomia ispirante bonarietà, Bersani sembra nuovo e tirato a lucido, senza suggerire artificialità. Certo, è una sorta di “plug-in” aggiunto in corso d’opera, ma per chi volesse un’ironia “built-in” ci sarebbe da votare Renzi. Ma non esageriamo con le innovazioni, si parla sempre del PD.
Parrebbe quindi che il fenomeno sia tutto italiano (certi siparietti all’estero se li sognano), dopotutto non ricordo il caso di un comico che sia assurto all’importanza politica che Grillo ha acquisito in Italia. Qualche attore in USA, ma è già poco, considerata la potenza mediatica di Hollywood.
L’Italia è il campo di coltura d’elezione per questa tendenza. Un paese in cui la parola “politica” è sospetta per l’uomo medio come la parola “scuola” lo è per lo studente medio e in cui la scollatura del paese dai temi civici e politici non è probabilmente mai stata così ampia dalla fondazione dello stato italiano.
Negli USA sguazzano da tempo nei due fenomeni strettamente collegati dell’infotainment (informazione mescolata a elementi di intrattenimento) e della horse race (sistematica rappresentazione del dibattito politico sotto forma di competizione pseudo-sportiva iper semplificata) ma questo è pressoché tutto.
Il primato mi pare, quindi, spetti tutto a noi, come spetta a noi raccogliere tutti i frutti, nefasti, di questa tendenza. Perchè se è vero che ci si può anche divertire a seguire un confronto televisivo, è altrettanto vero che si sta cercando di far riavvicinare la gente alla politica attraverso l’esca truffaldina della semplificazione e del voto dato a chi ci sta più simpatico.
E dire che ci abbiamo anche provato ai tempi del primo Prodi vs Berlusconi a organizzare un confronto “all’americana”, che non è la sfilata dei sospetti di un crimine di fronte ai testimoni, ma il modo di offrire alla pubblica opinione statunitense le diverse sfumature dei programmi politici dei due concorrenti alla Casa Bianca.
Il tentativo fallì miseramente. Berlusconi ebbe la meglio già allora perchè più simpatico e brillante; il suo avversario scontò una comunicazione troppo professorale e bonaria (che insieme all’estetica gli valsero l’epiteto di “mortadella”).
Che si debba andare a lezione di democrazia (e di politica) dagli USA farebbe gridare allo scandalo qualsiasi opinione pubblica europea. Ma è sufficiente confrontare le campagne elettorali americane con quelle italiane per accorgersi dello iato imbarazzante che, ahimè, ci separa da loro.