A mente freddaLa politica universitaria dopo le elezioni: come intervenire evitando la restaurazione

In seguito ad alcuni giudizi negativi che ho espresso in qualcuno degli ultimi post sulla possibilità che il PD possa elaborare, in vista delle elezioni che si terranno tra meno di due mesi, una cr...

In seguito ad alcuni giudizi negativi che ho espresso in qualcuno degli ultimi post sulla possibilità che il PD possa elaborare, in vista delle elezioni che si terranno tra meno di due mesi, una credibile proposta in termini di politica universitaria, sono stato invitato ad essere più esplicito nell’identificazione dei temi sul tappeto, e a dare alcune indicazioni su quelli che, secondo me, possono essere gli elementi di riferimento per orientarsi tra le diverse possibili tendenze.

Il modo migliore per partire è stato per me quello di cogliere le suggestioni che con maggiore frequenza appaiono nei luoghi in cui più intenso è il dibattito sul tema, soprattutto sui siti specializzati di ricerca e di politiche della formazione superiore, o sulle pagine e sui forum delle associazioni che raccolgono cultori delle discipline di studio e personale appartenente a categorie professionali accademiche. In generale, di fronte al collasso dell’intera proposta di governo berlusconiana a cui si è assistito negli ultimi mesi, è iniziata a montare tra gli addetti ai lavori la volontà di utilizzare la prossima legislatura per giungere a una efficace e radicale ridiscussione del piano operativo concretizzatosi con le riforme di fine 2010. In pratica, le due realizzazioni fondamentali che si richiedono ai partiti sono:

  1. abolizione della legislazione promossa dal ministro Gelmini per quanto riguarda reclutamento, promozioni, gestione delle risorse universitarie e meccanismi di valutazione delle sedi;
  2. aumento dei finanziamenti alla ricerca fino a raggiungere i livelli medi dei paesi sviluppati e il flusso di risorse richiesto dall’Unione Europea.

Tendenzialmente, queste istanze possono trovarmi d’accordo, a patto che si chiarisca meglio che cosa si intende.

1. La pura e semplice richiesta di abolire i provvedimenti approvati nel dicembre 2010 rischia di condurre, nei fatti, alla restaurazione della stratificazione di normative, ciascuna pensata come provvisoria e bisognosa di ulteriori interventi poi mai arrivati, che a non voler risalire all’età della pietra hanno visto il precedente significativo “ritorno di fiamma” tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, nei ministeri Berlinguer e Moratti. La proposta di una restaurazione che porti a una situazione percepita dai suoi stessi costruttori come instabile e incompleta, oltre a essere tecnicamente scorretta e al limite dell’ingenuità, presta il fianco a essere strumentalizzata da chi, invece, ricerca solamente il ritorno agli equilibri di potere preesistenti, le cui radici sociali e istituzionali non sono state minimamente scalfite dagli assetti elaborate negli ultimi anni, ma che alcuni gruppi corporativi prima esclusi dalla spartizione della torta hanno cercato di scalzare a loro vantaggio attraverso un uso disinvolto delle retoriche dominanti dell’efficienza e del controllo della produttività di individui e sedi.

Se quindi è vero che la “legge Gelmini” rappresenta sostanzialmente tutto quello che una legislazione sull’università attualmente non dovrebbe prevedere, occorre anche partire dal presupposto che la sua sostituzione dovrà essere accompagnata da un serio e compiuto processo di riedificazione del nostro sistema accademico. Il punto di partenza per questo nuovo sforzo progettuale deve effettivamente essere l’allontanamento dai reali principi fondativi dei provvedimenti del 2010, tacitamente accolti, seppur con qualche perplessità iniziale, a fine 2011 da un nuovo ministero che si è mostrato completamente inconsistente in ogni tentativo di dare una qualche impronta originale al suo operato. E come ho già detto in un’altra occasione, i provvedimenti del 2010 hanno essenzialmente due limiti strutturali insuperabili:

Quindi, il superamento della “legge Gelmini” deve essere un superamento di queste criticità. Al di là degli strumenti giuridici di dettaglio (su cui molto si potrebbe discutere ma che sono, per definizione, strumenti, e che quindi devono essere elaborati e rifiniti in vista del raggiungimento di obiettivi) occorre garantire un sistema in cui si limi gradualmente, fino ad annullarlo, la differenza di trattamento tra precari e strutturati, garantendo ai primi la piena partecipazione alla gestione in prima persona dei progetti di ricerca in cui sono occupati e l’accesso alle minime garanzie economiche e assistenziali, e rendendo le posizioni contrattuali dei secondi ridiscutibili di fronte a evidenti mancanze.

E occorre garantire un sistema in cui sia superata l’impossibile (e quindi, sostituita con alternative decisamente opache sulla base delle necessità contingenti del potente di turno) ricerca della perfetta “valutazione” da parte dell’ANVUR, e in cui si torni a parlare, a tutti i livelli, di progetti, di obiettivi, di strategie di impiego delle risorse, utilizzando i ranking per quello che sono in tutto il mondo: strumenti di raccolta e raffinamento di dati grezzi sulla base dei quali gli enti preposti potranno prendere le loro decisioni, sapendo che gli interlocutori istituzionali e l’opinione pubblica avranno a disposizione un eguale accesso alle informazioni e che, a giochi fatti, sarà necessario pagare le conseguenze di quel che si è scelto. Niente valutazioni cristallizzate per decreto, ma nemmeno il ritorno alla sovranità del professore ordinario che dall’alto della sua competenza non deve giustificare le sue scelte di fronte a un’opinione pubblica che sarà pure composta da incompetenti, ma che mette a disposizione i soldi che l’ordinario usa, e che ha tutto il diritto di dirsi più o meno soddisfatta. Le modalità di questa interazione tra opinione pubblica, potere politico e competenza disciplinare potranno essere discusse, ma sul punto esiste ormai una quantità di elaborazioni che vanno avanti da più di un secolo (qui un breve profilo dell’elaborazione del cosiddetto Haldane Principle, uno dei più noti principi complessivi nella gestione delle istituzioni della conoscenza), e non è necessario essere particolarmente creativi per importare modelli funzionanti che poi si potranno, nel corso del tempo, adattare.

Solo su questa base istituzionale si potrà rivitalizzare il concetto dell’autonomia delle sedi. Questa resta una prospettiva irrinunciabile per garantire un’adeguata flessibilità delle strategie di assunzione e di adeguamento del ruolo degli atenei alle realtà in cui essi operano e alle oggettive possibilità delle strutture scientifiche, non attraverso decisioni statiche prese per decreto ma attraverso il semplice riconoscimento di evidenze quantitative minime unanimemente riconosciute come significative.

2. Intimamente legato al ripensamento istituzionale, come si è visto, è il problema dell’aumento dei fondi. Posto che questo incremento è necessario, è possibile mettere più soldi in mano al sistema che ci troviamo ora?

Curiosamente, da molte parti i ranking e le classifiche di produttività scientifica così duramente (e spesso giustamente, anche se con argomenti un po’ unilaterali) attaccati quando qualcuno li usa per attaccare lo status quo diventano autorevoli quando ci dicono che il nostro sistema non è affatto male, in proporzione al suo costo. Questi ultimi dati sono nel complesso veri, ma non devono far pensare che le cose funzionino come si deve.

In primo luogo, non c’è alcuna correlazione tra contributo dei professionisti al funzionamento della “macchina” universitaria e progressione di carriera, ovvero partecipazione al consumo e alle gestione delle risorse investite. In sostanza, una quota crescente dei servizi che gli atenei offrono e del loro impegno nel progresso degli studi è affidato a persone che con un colpo di tosse del ministero resteranno a piedi senza possibilità di continuare la loro attività, mentre è stata garantita piena continuità di lavoro a diversi operatori la cui capacità produttiva nel mondo intellettuale non è nemmeno paragonabile a quella dei colleghi rimasti precari. Questi ultimi, tenendo conto delle tutele previdenziali a cui hanno accesso e della possibilità di ottenere finanziamenti preclusi a chi non è di ruolo presumibilmente spendendoli con risultati inferiori a quelli garantiti da persone più capaci, rischiano di impegnare soldi che sarebbero spesi meglio altrove, e che allo stato attuale delle cose non possono essere “liberati” per destinazioni migliori, essendo i loro posti di lavoro sostanzialmente intoccabili. È quindi evidente che, anche in un ciclo di espansione delle risorse disponibili per formazione superiore e ricerca, di fronte a un sistema di reclutamento caratterizzato da risultati del tutto casuali la capacità competitiva della nostra università continuerà ad essere legata alla disponibilità dei precari a svolgere un lavoro di qualità senza ricoprire le posizioni professionali che, altrove, spetterebbero almeno ad alcuni di loro.

In secondo luogo, questi soldi da dove dovrebbero arrivare? Per fortuna la crisi del debito ci ha costretto ad assumere un comportamento che ci avrebbe dovuto suggerire la semplice decenza: non è possibile continuare a spendere ricchezza che non si produce semplicemente per il consumo, senza averne quantomeno un ritorno di lungo periodo. Non è quindi pensabile, per lo stato, continuare ad accrescere il debito pubblico per trovare i fondi per far funzionare, tra le altre cose, la formazione universitaria e la ricerca. Né si può pensare, almeno in tempi brevi, a una crescita indiscriminata di tassazione generale o contributo d’iscrizione, che andrebbe ad appesantire una situazione già intollerabile e colpirebbe, senza un’ampia riforma di sistema, i soliti sfigati che pagano già molte più tasse di quanto mai riceveranno indietro sul piano dei servizi in tutta la vita. Non si potrà del resto fare troppo affidamento sulla mitica e sempre irraggiungibile “lotta all’evasione”, se non altro perché, anche se i risultati dovessero arrivare, quest’ultima dovrà servire in prima battuta ad alleggerire e ridistribuire il carico fiscale, fermo restando che gran parte della produzione sommersa in molte regioni è opera della criminalità organizzata, quindi per far rientrare le somme perdute servirà non Equitalia, ma una seria guerra alla mafia, finalmente interpretata come tale e non semplicemente sul piano del mero ordine pubblico.

In definitiva occorre, almeno nel breve periodo, che sugli atenei arrivino fondi sottratti ad altri servizi e ad altre funzioni che, in un preciso piano strategico di allocazione delle risorse, si considerano meno strategiche. Dato per scontato che un governo presentabile dovrà porre l’alimentazione quantitativa e qualitativa del sistema universitario in cima alle sue priorità, sarà anche necessario che esso individui cose che attualmente lo stato fa o finanzia e deve smettere di fare o finanziare, e dovrà tagliare alcuni degli innumerevoli cordoni ombelicali da cui traggono linfa vitale tanti dei settori della società italiana che senza un contributo pubblico avrebbero già chiuso i battenti. Tra le spese inutili per il mantenimento di settori improduttivi c’è l’imbarazzo della scelta, e il numero di disoccupati che si produrranno non sarà superiore (in compenso, godrà di tutele assistenziali pregresse decisamente più corpose) di quello che si è prodotto con la chiusura dei rubinetti agli atenei.

Concludendo l’esposizione di questi spunti di dettaglio che si dovrebbero dipanare in un periodo medio-breve, insomma, non bisogna dimenticare un dato di contesto fondamentale per non perdersi nei tecnicismi: i problemi più urgenti dell’università italiana, quelli del reclutamento e delle risorse, non possono essere affrontati se non in una più generale revisione della legislazione sul lavoro e del sistema fiscale. Da un lato, come dimostrano anche alcune interessanti analisi comparative, è destinato a fallire ogni tentativo di omologare le condizioni lavorative di precari e strutturati negli atenei se non si attua uno stesso sforzo sul piano più generale, se non altro perché in un sistema professionale aperto la fluttuazione dei dipendenti tra i diversi settori non deve soffrire delle vischiosità che caratterizzano il mercato del lavoro italiano, e chi fallisce la propria stabilizzazione in sede accademica deve poter agevolmente spendere le sue esperienze di altro profilo in altri ambiti, eventualmente a scapito di chi da quelle parti aveva messo radici senza particolari qualità. Dall’altro, le interessanti discussioni che hanno luogo a livello internazionale sul fallimento del sistema dei prestiti per il finanziamento di un sistema d’istruzione veramente efficiente sul piano della promozione dell’equità e della mobilità sociale non possono essere utilizzati come difesa d’ufficio di un sistema di finanziamento pubblico, quello italiano, che nel suo insieme si è dimostrato più pesante ed elefantiaco, ma non più egualitario di quelli anglosassoni, e su cui quindi non si potrà fare pieno affidamento prima di una profonda revisione generale.

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