Dove non si parla né di Django Unchained, né di Lincoln.
Non so voi, ma l’insistenza mediatica sui titoli di punta degli ultimi mesi mi sconforta un pochino. Non c’è spazio per altro – sei pro o contro Tarantino? E in generale, vale la pena andarlo a vedere? I film di Spielberg poi sono delle vere e proprie corazzate Potemkin cinematografiche: lunghissimi, strapieni di attori celeberrimi, frutto di anni di lavorazione che quasi sembra un oltraggio ignorarli.
Ho deciso: non recensirò né l’uno né l’altro per scelta, concentrandomi su titoli meno visibili (almeno, in relazione a questi giganti, ein termini meramente distribuitivi) e, forse, più interessanti e curiosi.
Re della terra selvaggia è tra questi. L’ho visto per la prima volta al London Film Festival lo scorso ottobre, già carico di premi prestigiosi – gran premio della giuria e miglior fotografia al Sundance, Caméra d’Or e premio FIPRESCI a Cannes. Niente male per un regista esordiente che non ha ancora compiuto trent’anni – Benh Zeitlin è del 1982, newyorkese ma ormai da tempo trasferitosi nella New Orleans post Katrina. Grazie al passaparola poi, il film è diventato un piccolo caso nel Regno Unito e oltre (un piccolo caso un po’ radical chic, è vero), conquistando fan del calibro di Barack Obama e guadagnandosi ben quattro candidature all’Oscar, tra cui quella per miglior attrice protagonista per la piccola Quvenzhané Wallis – che con i suoi sei anni (ai tempi delle riprese) diventa la più giovane candidata nella storia delle statuette dorate.
La storia è questa: Hushpuppy e il suo papà Wink vivono nella grande vasca (Bathtub, in lingua originale), un’area paludosa sul delta del Mississippi che non esiste nella realtà ma che somiglia parecchio a tante comunità bayou esistenti nella zona. E’ Hushpuppy stessa a raccontarci la sua storia: la mamma partita tanto tempo fa, così bella da accendere i fornelli sfiorandoli appena; il papà malato di uno strano male che gli avvelena il sangue; la vita sul pelo dell’acqua, in un equilibrio continuamente minacciato da tempeste e tornadi. Quando arriva il peggiore di tutti (che non è Katrina, ma ci somiglia molto), Hushpuppy dovrà lottare per salvare il mondo in cui vive.
Il trailer originale del film.
Il trailer doppiato in italiano.
Di etichette i critici ne hanno già pensate due: magical realism e American exotic, vale a dire quei film che si occupano delle parti più remote degli Stati Uniti, non solo geografiche ma anche sociali e culturali, portandole in scena secondo la fantasia di coloro che le abitano. Siano una bambina di sei anni nella paludosa Louisiana, un’adolescente cresciuta prima del tempo nelle montagne a cavallo tra Missouri e Arkansas (la protagonista di Un gelido inverno di Debra Granik, che nel 2010 vinse –aridaje– al Sundance) oppure, ben più indietro nel tempo, la giovanissima criminale in fuga nelle badlands del Dakota – una strabiliante Sissi Spacek ne La rabbia giovane (1973), esordio alla regia di Terrence Malick.
Armato di un budget minuscolo, scritturando attori non professionisti e realizzando tutte le riprese sul posto, Benh Zeitlin pesca a piene mani nella vita delle comunità bayou e ne riemerge con un film dall’immaginario visivo e sonoro potente, in cui la natura è protagonista tanto quanto le creature che la abitano – dal più piccolo insetto fino agli abitanti delle precarie case sull’acqua della “grande vasca.” Hushpuppy e il suo papà si muovono con agilità in questo mondo a parte eppure vero più del vero, in cui è normale incontrare enormi creature zannute e sbuffanti, che sembrano uscite dalla penna del migliore Miyazaki. E la riflessione sull’equilibrio precario di un ecosistema fragile si combina con il percorso di crescita di Hushpuppy, spinta da eventi più grandi di lei a diventare uomo, e ancora di più: un essere umano, in quel senso già spiegato da Billy Wilder qualche tempo fa.
Certo, Re della terra selvaggia è pur sempre un film Sundance: quell’accolita di artisti un po’ così, un po’ di sinistra ormai annacquata, interessante ma senza mordente, innovativa ma non sovversiva. E resta il dubbio: in che misura lo sguardo di un intellettuale newyorkese riesce a cogliere una realtà tanto diversa senza distorcerla secondo il suo gusto, la sua idea di quel che la vita può essere nel profondo Sud degli Stati Uniti? E ancora, un nuovo tipo di immaginario, una nuova idea di cinema può bastare? In mezzo alle lodi sperticate di molta parte della critica internazionale, Ignatiy Vishnevetsky dalle pagine di MUBI Notebook si distingue con una stroncatura che dà da pensare.
Ma allora, direte voi, dobbiamo andarlo a vedere questo film o no?
Se riuscite a trovarlo, andateci – Bolero film lo distribuisce in una trentina di copie in tutta Italia, è una caccia al tesoro – perché che vi piaccia o no, è bello avere un film che fa discutere.
Poi fatemi sapere.