DialogandoCaro Fusco, se Jucker è libero non è uno scandalo e non c’entra la borghesia

Sul caso Jucker L’articolo, a firma Michele Fusco, apparso su Linkiesta il 14 febbraio, dal titolo “Jucker è libero perché borghese. Da povero Cristo marciva in galera” merita una chiosa. Già il ti...

Sul caso Jucker

L’articolo, a firma Michele Fusco, apparso su Linkiesta il 14 febbraio, dal titolo “Jucker è libero perché borghese. Da povero Cristo marciva in galera” merita una chiosa.

Già il titolo è, quantomeno, impreciso. Jucker, infatti, non è stato liberato “perché borghese”: e ciò per due fondamentali ragioni. La prima è rappresentata dal fatto che oggi è veramente difficile individuare ancora nella nostra società una classe borghese. La borghesia dei secoli scorsi è ormai un ricordo impallidito, essendo stata da tempo cancellata, coi suoi vizi ed i suoi valori.

L’economia globalizzata e, prima ancora, la grande diffusione dei mezzi di comunicazione, tendendo ad omogeneizzare la società, hanno cancellato le distinzioni in classi della stessa, creando un sistematizzato fenomeno di interclassismo, che non consente più di affermare l’appartenenza di un cittadino a una determinata classe.

La seconda – ben più significativa – è costituita dal fatto che Jucker non è il solo assassino liberato dopo un periodo di carcerazione relativamente breve.

Sono molti gli omicidi che, addirittura poco tempo dopo il delitto e prima ancora del giudizio, vengono liberati per difetto di esigenze cautelari (perché, in considerazione della irripetibilità dei fattori che hanno portato al delitto, e della stessa personalità dell’autore, viene esclusa la pericolosità sociale).

Sono del pari molti i condannati per omicidio a pene relativamente miti, anche minori di quella irrogata a Jucker: e ciò sia per l’incidenza del rito – e delle intervenute riforme delle modalità di esecuzione della pena carceraria – che delle attenuanti.

Il caso Jucker, quindi, non costituisce, come fa intendere l’articolista, sotto questo profilo, uno “scandalo”.

È scandalo, per converso, che abbia scatenato polemiche così forti, anche in ambienti tradizionalmente garantisti, con toni ed accenti – come l’articolo a firma Fusco conferma – non solo privi di substrato tecnico-scientifico, ma di vago sapore razzista. Mi ha meravigliato, in particolare, che un giornale, quale Linkiesta, nato nella patria di Beccaria, abbia dato voce ad una censura chiaramente classista, che colloca sostanzialmente la problematica sul terreno di una mera questione di classe sociale.

Il problema è di fondo, e va visto alla luce della natura e della funzione della pena, secondo la concezione della Carta Costituzionale, che consacra, nell’art. 27, i risultati di una secolare battaglia di civiltà, affermando che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” .

Questo dettato, che segna il prevalere della concezione preventiva della pena su quella retributiva, non fa più attestare lo Stato su posizioni di semplice difesa mediante la retribuzione del male con il male ma di difesa della società dalla pericolosità degli autori dei reati.

La pena, conseguentemente, assume un ruolo di prevenzione (mirando ad impedire che soggetti socialmente pericolosi commettano ulteriori reati) ed ha, quale scopo primario, il conseguimento della rieducazione del condannato.

Si spiega così come una pena senza tempo (ergastolo) sia incompatibile con il dettato costituzionale, sia perché finisce con l’essere contraria al senso di umanità, sia perchè incompatibile con la funzione rieducatrice.

Così, conseguentemente, la pena perde significato quando è raggiunto l’obiettivo di civiltà che le è insito, vale a dire quando il condannato è ormai rieducato è non più pericoloso. Far persistere la pena oltre quel momento significa far segnare alla stessa un fatto di involuzione, che fa rivivere la concezione medievale della pena quale vendetta e mera punizione. La durata, pertanto, costituisce solo un aspetto della pena, sia pur di preminente rilievo pragmatico.

Per valutarla bene, affermava il grande Avvocato napoletano Giovanni Pansini, occorrerebbe misurarla con una clessidra. In tal caso i giorni apparirebbero interminabili, per non parlare dei mesi e degli anni .

Non deve pertanto meravigliare – e meno che mai far gridare allo scandalo – il fatto che Jucker sia stato liberato dopo avere scontato 10 anni e 6 mesi della pena definitivamente inflittagli (16 anni e 3 di casa di cura): pena così ridotta, come riconosce l’articolista, grazie al patteggiamento, ad un diverso bilanciamento tra attenuanti ed aggravanti, ad un indulto e all’incidenza della “ liberazione anticipata” (istituti dei quali usufruiscono tutti condannati, a qualsiasi “classe” appartengano).

Ma è la conclusione – peraltro perfettamente in linea con i contenuti dell’articolo – a sconcertare definitivamente il lettore.

Fusco, infatti, ipotizza che la liberazione di Jucker sarebbe il frutto “di una discriminazione sociale che privilegia (legalmente) chi può e lascia in strada chi non può”.

A parte la “contradictio in adiecto” (il privilegio non può mai essere considerato legale), non può sfuggire la pericolosità di simile enunciato.

Perché un giudizio del genere può innescare un processo reattivo che potrebbe portare veramente ad una giustizia “di classe”, che vedrebbe, questa volta, privilegiato, chi non può rispetto a chi può: il che sarebbe parimenti ingiustizia per tutti.