Lisbona, 29/01, esame di Scienze politiche
Sviluppa un testo sulle riconfigurazioni che gli Stati hanno subito per il processo di globalizzazione in corso.
Senza dubbio alcuno, il processo di globalizzazione dell’economia (e non solo) ha comportato conseguenze di enorme portata sulla configurazione del classico Stato-nazione, rimasta pressoché immutata dalla Pace di Westphalia (1648).
international-relations9Quella in atto è una trasformazione dell’assetto internazionale, dovuta alla crescente interdipendenza tra Stati, alla riduzione degli spazi e dei tempi, allo sviluppo di nuove tecnologie e mezzi di comunicazione, e, non ultimo, all’affacciarsi, sulla scena mondiale, di nuovi soggetti transnazionali (multinazionali, hedge fund, organizzazioni terroristiche, ONG).
Tali sconvolgimenti necessariamente implicano la nascita di problemi di dimensioni tali che difficilmente uno Stato, per di più se piccolo come Italia o Portogallo, può affrontare e risolvere in autonomia.
Dopo il crollo dell’URSS, e la conseguente rottura dell’equilibrio bipolare, l’apertura alla democrazia e al mercato di quasi metà del mondo, il processo di globalizzazione, già in atto, ha acquisito notevole velocità; ma quali sono state le risposte degli Stati?
Certamente non univoche, omogenee e unidirezionali, cosa che, d’altronde, era lecito aspettarsi, in una situazione di “disordine organizzato” come l’attuale, ma, piuttosto, la risultante di forze in tensione tra loro, in equilibrio sempre mutevole.
Sicuramente la pressione “dall’alto” (quella che Barber ha brillantemente definito McWorld), di un mondo sempre più interconnesso, ha stimolato la creazione di strutture giuridico-istituzionali sovranazionali, alcune a carattere marcatamente militare (NATO), altre economico (NAFTA, WTO, MerCoSul), altre ancora politico, ovvero implicante cessione di sovranità (UE, seppure con tutte le resistenze del caso: basti pensare all’abbandonato progetto di una Costituzione Europea per un meno ambizioso Trattato di Lisbona, che oggi evidenzia i propri limiti); o, comunque, la consapevolezza, come nel caso della crisi del Sud-Est asiatico negli anni ’90, che, in queste situazioni, la ricetta più efficace richiede maggiore integrazione.
D’altro canto, gli stessi Stati sono soggetti a pressioni anche in senso opposto, “dal basso”, quello che lo stesso Barber chiama pulsioni di Jihad, ovvero moti di rigetto della sempre maggiore connessione e, al contrario, di affermazione identitaria (spesso veicolata dalle religioni): ne sono esempio l’Egitto post Mubarak, o, nel cuore dell’Europa, la fioritura di partiti xenofobi, su base territoriale e separatisti (si pensi al Belgio per più di un anno senza governo, alla Lega Nord, alla Catalogna o alla Corsica).
Come si evince, il processo è in corso, con i normali alti e bassi dovuti al ripensamento del concetto fondamentale alla base della struttura degli Stati: la sovranità. Le resistenze che una rivoluzione del genere, che definirei copernicana, saranno a mio modesto parere superate, più o meno facilmente, fino alla costruzione di un ordine internazionale pienamente multipolare, libero e democratico, e l’Europa, in questo contesto, può essere, ancora una volta, il modello da seguire, avendo già compiuto notevoli passi in avanti in tal senso e trovandosi in una situazione di crisi dalla quale è lecito aspettarsi risposte forti ed innovative.