Vi chiedo scusa, uomini, se esco da un lungo letargo e, superando i limiti del mio essere apparentemente inanimato, uso il vostro linguaggio per rappresentarvi la mia amarezza, le mie preoccupazioni e le mie speranze. Ma gli avvenimenti di questi ultimi tempi, in particolare la vera e propria fuga di magistrati verso il mondo politico – fenomeno che non può non pregiudicare, allegando a sospetto la terzietà del giudice, la credibilità del giudizio – e i recenti arresti di avvocati, cancellieri ed altri operatori del mondo giudiziario, accusati di avermi affossato per anni, in attesa della declaratoria della mia estinzione (per prescrizione), mi inducono a rompere il silenzio nel quale, forte della mia essenza quale strumento di verità, mi ero relegato da sempre.
Ho molta paura che questi avvenimenti possano incidere su di me, fino a snaturarmi e a farmi scadere in un puro rito esteriore, una sorta di rituale tribale, fatto più per appagare le emozioni del momento piuttosto che quei profondi sentimenti di giustizia, che esigono, e nel contempo giustificano, la mia presenza nel contesto di una società civile.
Temo che i giudici – che, in ultima analisi, sono la mia voce – preoccupati di apparire vicini, se non collusi, con le parti, dimentichino il loro ruolo effettivo: che è quello di rendere, quali umili servitori della Legge, giustizia ai soggetti direttamente interessati e, così facendo, alla società stessa.
Temo che essi dimentichino il giuramento prestato, che li vuole fedeli osservanti della Legge e, come tali, al riparo da ogni suggestiva influenza esterna, da qualsiasi parte promani.
Temo che essi, tra la via difficile e coraggiosa di applicare la Legge in modo giusto e corretto – esponendosi, così, quando il risultato del giudizio non dovesse coincidere con le aspettative generali e le situazioni emotive del momento, a forti critiche- possano privilegiare la via, più breve e più sicura, dell’adeguamento del loro giudizio ai sentimenti della generalità dei consociati, che, spesso, coincidono con la ipotesi che mi ha generato, vele a dire quella accusatoria (non a caso, nasco dal sospetto).
Ma temo soprattutto che i Giudici non siano più animati da quella passione che spingeva Dante Troisi – giudice in un piccolo centro meridionale – a portarsi, a sue spese, a Roma per assistere, per la prima volta, a una udienza della Corte Suprema di Cassazione, spinto «dalla brama di avanzare nella carriera e sedersi in quell’aula».
Temo che l’avvocato, a sua volta compreso dei rischi che l’esercizio della sua altissima funzione comporta ponendolo a stretto contatto col delinquente, possa perdere quelle tensioni morali che sono alla radice della sua attività e che si estrinsecano nell’ansia di affermare la superiorità dell’antitesi difensiva rispetto alla tesi accusatoria.
Io, che sono costretto a vivere dei delicati equilibri che caratterizzano il mio sviluppo (processo viene da procedere, vale a dire andare avanti) temo che l’alterazione anche di uno solo dei fattori che concorrono ad assicurare la permanente dialettica, possa, alla fine, snaturarmi, facendomi così scadere da strumento di verità in strumento di oppressione.
Questo timore, che mi accompagna fin da quando sono nato come processo libero e degno di tal nome (molto lontano dal simulacro del mio omonimo medievale) è in questi ultimi anni – a dispetto della riforma del codice di rito- accresciuto, per la dimensione e l’incidenza che hanno assunto le indagini preliminari rispetto al momento del mio intervento.
Mi è sembrato di essere stato quasi esautorato, se non soppiantato, dal pubblico ministero e dalle sue indagini, che, compiute sempre più spesso non da un solo soggetto ma di un pool di Pubblici Ministeri, sono apparse sempre più, agli occhi degli osservatori e degli interpreti, come foriere di risultati già appaganti sul piano della credibilità e, quindi, della giustizia.
Mi sento, così, svilito, quasi inutile, relegato in una sorta di ghetto giudiziario nel quale sembrano destinati a rivivere pedissequamente quei risultati, già conseguiti nel corso delle indagini preliminari, ai quali io sono chiamato a dare solo il crisma formale della giurisdizionalità.
La prova che mi viene sottoposta è, in sostanza, una prova preconfezionata, rigida, spesso facente capo ai cosiddetti collaboranti di giustizia, che, come tali, meritano aprioristica ed acritica fiducia, per evitare il rischio che il riconoscimento dell’infondatezza delle loro versioni accusatorie possa sconvolgere un intero impianto d’accusa, segnando, così, un successo della criminalità nei confronti della società.
Quasi che il riconoscimento della insufficienza o della inconsistenza di un’accusa costituisca un pericolo, piuttosto che un motivo di tranquillità e di fiducia per i cittadini. A questo punto credo di avere il diritto -dovere di lanciare questo allarme. Intendo lottare per il recupero pieno dei miei valori.
Pretendo un giudice forte e sereno che, al di sotto della toga, abbia un’anima pura e un cuore forte. Pretendo un giudice che abbia il coraggio di condannare e di assolvere, senza preconcetti e pregiudizi. Pretendo un giudice che ami la toga più della politica. Pretendo che l’avvocato si batta accanto all’imputato con ogni sua energia, senza mai confondersi con lo stesso e senza mai correre il rischio – per l’imprudenza della condotta- di essere ritenuto contiguo allo stesso.
Pretendo, infine, che la dialettica sia il compagno di viaggio che mi conduca verso il risultato di giustizia. Dico tutto ciò, perché sento parlare sempre più di riforma della giustizia.
Vogliono cambiarmi i connotati. La cosa, visto come sono ridotto, potrebbe non dispiacermi. Ma devo avvertire i chirurghi della giustizia- spesso improvvisati- che il Codice di Zaleuco, vigente a Locri nell’antichità, prevedeva la pena di morte per il Llgislatore che avesse sbagliato a modificarlo. E la corda insaponata, secondo Demostene, veniva tirata subito. Da noi non c’è la pena di morte. Ma per il legislatore incapace ve n’é una peggiore: passare alla storia come responsabile della morte della giustizia.
Antonio Ingroia