«La soluzione di governo è possibile, ma non potevo più essere io a trovarla» ha detto il Presidente della Repubblica. Un’opzione esplorabile ancora c’era, ma è comprensibile, e forse anche auspicabile, che il cambiamento prenda il via dalla decisione di un capo dello Stato nella pienezza dei poteri.
Il cambiamento. Un concetto che si presta a varie declinazioni a seconda di chi lo invoca. I Cinquestelle (sostantivo) vogliono un governo a cinque stelle (aggettivo). «Qualcuno di cui ci fidiamo», chiedono. «Scelto dalla rete», aggiungono. Per la maggioranza interna del Partito democratico, divisa a sua volta sullo schema uscito dalle primarie per la scelta del candidato premier, il cambiamento è qualcosa di meno stringente, meno impegnativo, meno obbligatorio. Nella partita che si chiuderà a giorni per il Quirinale si capirà quali siano realmente i pesi di questa tripartizione interna al partito di maggioranza relativa.
La trattativa fallita che Bersani ha intavolato con i Cinquestelle ha evidenziato quanta distanza ci sia tra le istanze grilline e la capacità della leadership democratica di interpretare i meccanismi e le tattiche di un movimento che pesca nello stesso lago. Un bacino che si è improvvisamente allargato, coinvolgendo un elettorato indomitamente sensibile al populismo che nelle precedenti tornate aveva scelto la variante berlusconiana, risultando determinante. Un allargamento che, tradotto in lingua Pd, assomiglia al sogno maggioritario di veltorniana memoria. Toccherà al successore di Napolitano tracciare un percorso che lasci aperta la porta a un governo Pd-Cinquestelle. Un’opportunità irripetibile che richiede un supplemento di coraggio (oltre ai numeri, che per ora sono fermi a una ventina di parlamentari democratici).
Mentre il Pd discute della prossima stagione, immaginando Renzi premier, Barca segretario e di lì a scendere, rischia (eufemismo) di sbagliare la giacca da indossare in questa. A un certo Partito democratico piace specchiarsi nella mitologia leftist anglosassone: l’altro ieri c’era Blair, oggi c’è Obama. Un’ingenuità buffa e in fondo comprensibile: a vent’anni di ricerca laboriosa di leadership interne sono corrisposte rare e traballanti leadership del paese. È lecito che nel Pd e nella sua area culturale ed elettorale di riferimento ci si chieda: «Ma come faranno overseas?».
In Gran Bretagna e Stati Uniti, e questa è la lezione che non piace ascoltare, la politica parla del paese che vuole nei cinque, dieci, vent’anni successivi, ma con una avvertenza: il futuro non rimane lì, a disposizione, per sempre. È sostituibile, specie se nel frattempo ne sopraggiunge un altro a cambiare le carte in tavola, a offrire nuove soluzioni e nuovi stimoli impossibili da ignorare. Non basta anticipare una decisione che si credeva buona per il lungo termine. Per saperlo cogliere occorre tempismo, semplice e tautologico tempismo. Ma quella è la condizione imprescindibile per il buon esito di qualsivoglia decisione politica: la condizione imprescindibile per governare, insieme al coraggio.