La “regressione” democratica: con questo termine pesante il Presidente della Repubblica nel discorso del suo secondo insediamento ha condannato “l’orrore che si va diffondendo in Italia verso intese, alleanze, mediazioni, convergenze…” che invece sono la natura costitutiva della politica e della dialettica democratica. Non a caso ha citato il fatto che non ci sia nessun governo in Europa che non sia di coalizione, spesso tra forze dichiaratamente avverse.
E’ un allarme, il più autorevole, verso un clima avvelenato che ci tormenta da ormai troppi anni e che paralizza lo svolgimento fisiologico della vita politica e istituzionale. Ed è chiarissimo anche il bersaglio della reprimenda: quel costume intellettuale sparso nell’arcipelago della sinistra che non riconosce addirittura la “parità umana” degli esponenti, dei simpatizzanti e degli elettori dell’altra parte dello schieramento politico.
Sono i frutti tossici della cultura cosiddetta “giustizialista” che, seminata a piene mani dal circuito mediatico e acriticamente tracimata nella Rete, impedisce di voltar pagina e di occuparsi per davvero dell’emergenza sociale. Infatti le sedi del PD occupate dagli stessi militanti non lo sono state per la povertà in aumento, per gli esodati abbandonati o per il lavoro perduto, ma solo per l’elezione di un Presidente condiviso e non eletto da una parte sola, la propria.
L’involuzione della convivenza civile e quel preoccupante supplemento di rancore continuamente alimentato dai social-network sembrano proprio risalire a quando una parte della sinistra ha volontariamente rinunciato al primato della politica per diventare ancella della magistratura e tromba acritica di una selettiva legalità.
Una spirale sempre più stretta e sempre più incattivita, senza più accorgersi che invece della legalità si è inseguita della legalità solo la sua degenerazione. E le toghe ci hanno messo del loro. D’altronde, quando le procure si trasformano in “guardone” delle scopate di Arcore, poi si finisce bene o male come Di Pietro. Già, nessuno si interroga su dove e come sia finito Di Pietro. Che fosse un signore “disinvolto” e dalle relazioni e dai traffici non proprio commendevoli lo si sapeva già vent’anni fa all’esplosione di Mani Pulite. Eppure il circo mediatico-giudiziario lo ha trasformato per troppi anni nel campione della legalità, nell’angelo vendicatore del popolo contro i “cattivi” e gli “impresentabili” della politica.
Gli esempi al riguardo sono tantissimi: ma l’aspetto più angosciante è che un filone intellettuale particolarmente ben frequentato ha contribuito a stabilire un “fossato antropologico” tra la sinistra “trendy” (più dei salotti che delle fabbriche) e quei “subumani” dei berlusconiani. Con il risultato di resuscitare sempre elettoralmente il Cavaliere e trascinare regolarmente alla sconfitta nelle urne tutti i leader politici, consumati ormai in quantità industriale.
Chi qui scrive conserva l’antica persuasione che Berlusconi si può battere soltanto con la politica (e non con le scorciatoie giudiziarie). Possibilmente con la “buona politica”, ovvero la capacità anche culturale di affondare con la scure nella inestricabile giungla normativa, nel potere irresponsabile delle burocrazie di Stato, nel disastro della Pubblica Amministrazione, che, per come è disorganizzata, è la fonte primigenia della dilagante corruzione. E, perché no, nella stessa gestione della giustizia, che, con le sue inefficienze e i giuridicismi da Azzeccagarbugli , costa ai contribuenti onesti ogni anno ben più di tre o quattro IMU messe insieme, che scoraggia gli investimenti dall’estero e massacra i ceti produttivi a vantaggio esclusivo di quelli parassitari.