Le ArgonauticheLe ultime parole famose

Prima Jannacci, poi Califano. E prima di loro molti altri e dopo di loro altrettanti. E come ormai è d’abitudine, nemmeno il tempo di apprendere la notizia della dipartita, e iniziano a volare twee...

Prima Jannacci, poi Califano. E prima di loro molti altri e dopo di loro altrettanti. E come ormai è d’abitudine, nemmeno il tempo di apprendere la notizia della dipartita, e iniziano a volare tweet e post di ogni tipo. Improvvisamente tutti si accorgono dei geni, degli artisti che abbiamo a casa e sono pronti a citarne qualche verso, così per darsi un tono. Salvo poi scoprire che il verso citato è lo stesso che hanno citato quasi tutti gli altri, sempre lo stesso.

E se da un lato questo fatto è sintomo della moda da “coccodrillo istantaneo”, dall’altro ha radici ben più profonde. Benché Jannacci abbia fatto un’infinità di cose, probabilmente passerà alla storia solo per quel suo “vengo anch’io, no tu no” o per le “scarp del tennis”, nulla di più.

Per quanto Califano abbia avuto una vita burrascosa e degna di un bohémien, alla fine di lui ci rimarrà solo quel “tutto il resto è noia”, e ne era così convinto anche lui che addirittura lo aveva fatto scrivere sulla fiancata della Smart con cui girava dentro Roma.

Loro due insomma ci appariranno sempre così: in ogni minuto della loro vita saranno stati gli autori (solo) di quelle canzoni e gli artisti che dicevano sempre e solo quelle cose: tutto il resto è noia, appunto. È lo stesso fenomeno delle foto o delle incisioni sulle tombe. La cosa affascinante è legata però al momento in cui quella frase o quella foto (perchè proprio quella e non un’altra?) è stata scelta. Scelta fatta molto spesso da qualcuno (amici, parenti, famigliari) che quasi mai coincide con chi poi ne beneficerà, diciamo così.

In quel momento, quello in cui c’è da scegliere la foto o la frase da incidere sulla lapide, ci si è trovati o ci si troverà esattamente davanti al problema che i romanzieri hanno di fronte ai loro personaggi, alle storie che raccontano: scegliere un’istantanea che le riassuma tutte, che fermi il vero volto di quella persona (o personaggio) per sempre nella storia.

Boltzmann ad esempio, fisico e matematico austriaco, ha inciso sulla propria lapide la scritta “S = k log W”, che rappresenta la descrizione della formula da lui individuata: S è l’entropia, k la costante di Boltzmann (eh beh), e log W il numero dei possibili modi in cui può essere ottenuta una data distribuzione di atomi in uno spazio.

Ma tra i fisici non è stato certo il più simpatico, a me ad esempio l’epigrafe che piace di più è quella di Heisenberg che, avendo scoperto uno dei principi fondamentali della meccanica quantistica e cioè il “principio di indeterminazione”, sulla tomba ha fatto scrivere: “Giace qui. Da qualche parte”. Applausi.

Non tutti però avevano lo stesso spirito, basti pensare ad Al Capone che, probabilmente intimorito da una ipotetica legge del contrappasso, ha scelto un elpidico “Pietà mio Gesù”. Quando si dice che poi non ci sono le conversioni.

Però non vorrei suscitare in voi sentimenti negativi, state sereni, “D’altronde sono sempre gli altri che muoiono”, per dirla con la frase sulla lapide di Marcel Duchamp. E che dire invece di quel talento insuperato di Groucho Marx che, come epitaffio, avrebbe voluto fare incidere la frase: “Scusatemi, non riesco a stare in piedi”? No, poi non l’hanno scritto davvero: i familiari ci hanno ripensato lasciando lo spazio solo alla stella di David.

Insomma, trovare il senso della vita e racchiuderlo in una fotografia o in una frase non è semplice, anche se tutti sembrano sempre convinti di una cosa: che se una vita ha un senso lo si trova nella maturità, lontano dalla sbracataggine della giovinezza e dal degrado della vecchiaia. Ma questa convinzione è quasi sistematicamente ignorata da chi scrive per mestiere, che invece sa benissimo che il baricentro di una vita è spesso nascosto in pieghe assai più imprevedibili e difficili da scorgere che in una semplice foto o frase della maturità, per quanto brillante.

Motivo per cui i libri hanno molto fascino, perché permettono di andare più in profondità di quanto si pensi. Fascino che fu finanche l’ultimo pensiero di Balzac, che sul letto di morte si lamentava: “Otto giorni di febbre! Avrei avuto ancora il tempo di scrivere un libro”! Beato lui che aveva bisogno di così poco tempo, verrebbe da dire.

Chi, invece, quei percorsi in apnea nelle piaghe dell’esistenza non riusciva più a sopportarli fu Pavese che, prima di farla finita, lasciò un biglietto con la scritta “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.

E io cerco di non farne più. Tranne uno, l’ultimo: sapete cosa si farà incidere Califano sulla lapide? “Non escludo il ritorno”. Bohémien, fino alla fine.

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