Poco importa che Nicolas Maduro abbia vinto e governerà fino al 2019 e poco importa che l’opposizione denunci brogli ed inizi la lunga, prevedibile trafila della vittoria non riconosciuta e dei ricorsi, il chavismo è comunque morto con l’ex presidente e le elezioni presidenziali lo certificano.
Nicolas Maduro ha vinto con il 50,66% dei voti contro il 49,07 di Henrique Capriles, leader dell’opposizione unita, già sconfitta con maggiore difficoltà lo scorso ottobre da Hugo Chavez con un non meno sofferto 54,5% e con un’affluenza impressionante che fu già la testimonianza di un paese conteso fra il carisma e la speranza del leader bolivariano e la dura realtà di un paese sostenuto dal petrolio ma flagellato dall’inflazione, dalla criminalità e dalla crisi sociale ed economica.
Il chavismo e la rivoluzione sono morti con Chavez, un uomo che era molto più di un presidente, che poteva contare su un pedigree militare, che attraeva i simpatizzanti dell’esercito nel paese, ma anche su un polso politico che gli aveva permesso di costruire alleanze importanti con Cina e Russia, di far entrare il suo paese nel Mercosur, di creare un asse alternativo sempre più forte con gli Usa e che soprattutto aveva tenuto compatto il Partito Socialista Unito del Venezuela.
Il vero dubbio dei prossimi giorni non è tanto se l’Assemblea Nazionale, con 98 seggi dei socialisti contro i 67 dell’opposizione, la Corte Suprema e perfino i grandi organismi statali economici e petroliferi siano con lui (è ovvio che sarà così, nessuno, neppure Diosdado Cabello è tanto ingenuo da tentare colpi di mano o diatribe interne che consegnerebbero il paese automaticamente all’opposizione facendo venire meno anche l’appoggio di altri paesi), ma se il popolo sia con un ex autista di autobus, troppo “borghese”, designato senza lotta e vincente con un margine così piccolo, quasi a renderlo colpevole di aver dilapidato il patrimonio elettorale del grande comandante.
Però Cabello ha già parlato di “profonda autocritica” e Jorge Rodriguez, dirigente di spicco del partito ha invitato la gente a stringersi attorno al nuovo presidente, manifestando in pace e tolleranza. Proclami ben lontani da quello schiacciante senso di vittoria e di sicurezza, da quella festa convinta e con un solo protagonista dal balcone di Palazzo Miraflores. E se perfino Capriles ha pensato bene di chiamare Maduro offrendogli un accordo per poter governare con obiettivi comuni, un patto ovviamente rifiutato da Maduro, vuol dire che una stagione è finita e che il Venezuela dovrà iniziare a fare i conti con la politica dei conti in tasca, della povertà non soddisfatta dai sussidi e delle paure per il futuro.
Il debito estero è a circa 90 miliardi di dollari, l’inflazione è vicina al 22% anche se, al pari dell’Argentina, i meccanismi per calcolarla sono diversi da quello del Fondo Monetario Internazionale ed anche i tassi di crescita sono stati rivisti al ribasso e sbaglia chi parla di crisi fisiologica. Tutti sanno che il petrolio non è eterno, che le alleanze costruite da Chavez senza lui rischiano di vacillare e che l’incubo del Venezuela è quello di “cubanizzarsi”, ovvero ancorarsi ad una fede politica, perdendo di vista gli obiettivi economici e sociali dei prossimi anni.