Come ogni anno Amnesty International, organizzazione non governativa impegnata nella difesa dei diritti umani in tutto il mondo, ha pubblicato il suo Rapporto sulla pena di morte e le esecuzioni. “I numeri del 2012 sull’ uso della pena di morte confermano che il trend complessivo e in linea generale va verso l’abolizione”, scrive Amnesty nell’introduzione del rapporto. “In generale – si legge ancora – un solo paese nel mondo su 10 ha eseguito condanne a morte.”
La tendenza, dunque, sembrerebbe quella dell’abolizione della pena capitale dai codici penali di gran parte del mondo. Tuttavia, il compito di Amnesty, che condanna la pena di morte, “senza eccezioni, indipendentemente dalla natura del crimine, dalle caratteristiche dell’offesa e dai metodi usati dagli stati per uccidere i condannati”, attraverso campagne a sostegno della sua “abolizione totale”, non può ancora dirsi esaurito.
Il 2012 ha visto, infatti, il ritorno delle esecuzoini in diversi paesi che da tempo non eseguivano condanne a morte. È il caso di alcuni paesi asiatici: in particolare India, Giappone e Pakistan. E poi c’è il caso della Cina, dove le condanne sarebbero più numerose che nel resto del mondo.
Il 21 novembre 2012, ricorda il rapporto di Amnesty International, è stato impiccato Mohammad Ajmal Amir Kasab, 25enne pakistano, unico militante coinvolto negli attacchi terroristici di Mumbai del 2008, in cui morirono 164 persone, a essere catturato vivo. In India non si vedeva un’esecuzione da otto anni. Era il 2004, quando il 42enne Dhananjoy Chatterjee venne impiccato dopo essere stato condannato a morte per lo stupro e l’uccisione di una ragazza di 14 anni nel 1990.
È di oggi la notizia della bocciatura da parte della Corte suprema di Delhi della richiesta di conversione di pena in ergastolo che un militante sikh, Devinderpal Singh Bhullar, ha presentato dopo più di vent’anni di detenzione nel braccio della morte. Secondo la sentenza dell’alto organo giuridico indiano, “una condanna a morte non può essere tramutata in ergastolo a causa di un ritardo nell’esecuzione”. La notizia fa temere le associazioni per i diritti umani che le esecuzioni aumenteranno di qui ai prossimi anni. Subito dopo il Pakistan (242 condanne a morte nel 2012), l’India è il paese con il maggior numero di condanne inflitte (78).
Il Giappone si presenta all’esame di Amnesty da unico paese, insieme agli Stati Uniti, a esser membro del G8 e ad aver eseguito condanne capitali negli ultimi anni. Il 21 febbraio scorso, tre prigionieri nel braccio della morte Kanagawa Masahiro, 29 anni, Kobayashi Kaoru, 44 anni e Kano Keiki, 62 anni, sono stati giustiziati rispettivamente nei centri di detenzione di Tokyo, Osaka e Nagoya. In Giappone ci sono ancora 134 condannati in attesa di esecuzione, alcuni da quasi dieci anni come il guru degli attacchi al gas sarin nella metropolitana di Tokyo nel ’95, Asahara Shoko.
Ma i tre, come ricorda Andrea Ortolani, esperto di diritto giapponese all’Università di Tokyo, sul suo blog Il diritto c’è ma non si vede, erano stati condannati in tempi relativamente recenti e perciò rimangono dubbi sull’urgenza con la quale sono stati uccisi. Le esecuzioni avevano conosciuto uno stop di 20 mesi sotto i governi del Partito democratico: Chiba Keiko, ex ministro della Giustizia del governo di Kan Naoto, aveva aperto nell’agosto del 2010 le camere della morte del Centro di detenzione di Tokyo alla stampa. Oggi con il nuovo governo conservatore di Abe Shinzo una nuova stagione di aperture sembra improbabile.
È la Cina però a preoccupare maggiormente Amnesty. Oltre Muraglia, sostiene l’organizzazione, sarebbero state eseguite migliaia di condanne, ma a causa della “segretezza delle informazioni”, non è stato possibile finora fornire cifre accurate. Tuttavia anche nel 2012 la Cina avrebbe eseguito più condanne a morte di tutto il mondo messo insieme.
Secondo quanto dichiarato a Radio Free Asia da Mabel Au, direttrice di Amnesty International a Hong Kong, infatti, la stima arriverebbe dai dati diffusi dai media ufficiali arrotondati per eccesso.“Dal 2008-2009, il governo di Pechino ha smesso di rendere i dati pubblici”. “Non so perché siano spaventati che le persone sappiano dei casi di pena di morte – ha aggiunto Au – se i condannati avessero ricevuto un processo giusto e ci fossero prove sufficienti a tenerli in prigione”.
Ci sono però, conclude il rapporto di Amnesty, anche casi “virtuosi” in un continente dove la pena di morte incontra ancora scarsa opposizione popolare: Vietnam, Singapore e Mongolia, paesi in cui l’anno scorso di esecuzioni, non se n’è vista neanche una.