La scomparsa di Giulio Andreotti ha visto fiorire sul web tutta una serie di considerazioni, osservazioni e battute sul filo di un’ideale corda tesa tra l’analisi storico-politica un tanto al chilo e il trivio becero. Ci sta. Si capisce. I social network a volte danno colore ad ego grigini, esaltano la spericolatezza espressiva e favoriscono riscosse vegliate al lume del rancore.
Che però Massimo Gramellini – giornalista, scrittore, autore di vaglia e non un liceale brufoloso col nickname figo – si sia lasciato andare a questi tempi qua, fa un po’ specie. Il Buongiorno di ieri su La Stampa non è all’altezza della sua signorilità e del suo stile. O almeno non a quelli cui ci ha abituato.
Ora, uno può avercela con Andreotti per mille ragioni. Può odiare la democristianitudine di cui era incarnazione. Quell’approccio felpato del pescecane che finge di avere i denti di gommapiuma e – intanto – sbrana. E, specularmente, quella moderazione – che in sé è una virtù civica – ma che nel democristiano doc assume l’incolore propensione a scansare gli attriti e a badare alle mura della parrocchietta.
Tutto legittimo. Però la battuta finale sul “tirare le cuoia” e sul “cuore acceso” è gratuita. E poi non è rispettosa delle cuoia degli altri e – soprattutto – la poteva scrivere un twittatore qualsiasi. Ok, era una parafrasi del famoso motto andreottiano, però il fastidio resta. Così come “Sbardella, Vitalone, Evangelisti: più che ritratti sono foto segnaletiche” è una frase semplicemente fascista, quel fascismo da bassotuba che prende per il culo gli altri per il loro aspetto fisico.
Le grandi ideologie non ci sono più, i partiti sono quello che sono, i politici della Prima repubblica stanno scomparendo tutti. Cerchiamo con i nuovi tempi di non perdere almeno l’educazione e il rispetto dovuto per chi muore.