C’era Napolitano. C’era la Boldrini. Ma soprattutto c’erano i genovesi – tanti – alla cerimonia per salutare i nove morti causati dal crollo della torre pilota nel porto di Genova qualche giorno fa. Messa solenne nella chiesa di San Lorenzo officiata da Monsignor Bagnasco. Tanti occhi lucidi e il senso di comunità che sa raccogliersi – insieme – nei momenti importanti.
Ero lì per lavoro. E ho visto tutto. Ho visto le bare che sono arrivate una ad una e hanno preso il loro posto ordinatamente davanti all’altare. Le ho viste ascoltare l’omelia, la preghiera del marinaio e andarsene via in spalla tra i cappelli bianchi dei marinai, caracollanti tra le colonne alte della cattedrale, avvolte nel tricolore, una mandria disgraziata e tragica abbracciata da una folla commossa e ferita.
E, a proposito di ferite, ho visto due volti. Un padre in prima fila con un viso porpora e un pizzo bianco e uno strazio non commensurabile. E però dritto, e però composto, e però disperato. E poi ho visto poco dietro una maschera impassibile, di pietra, immota come un mare trasformato in pozzanghera dal dolore. Un fratello, forse. E piantati in quella impassibilità due occhi rossi, pieni di lacrime che non sgorgano. Occhi di animale braccato.
Ecco, io non sono di Genova. Ci abito da una quindicina d’anni e oggi questa città e la sua gente mi sono apparse per come sono: essenziali, appassionate e dignitose. Come penso si dovrebbe essere in questo mondo. Genova è un bel posto dove vivere.