Dove parlo di Inuit e orsi polari.
Quando propongo di andare a vedere un documentario, parte (quasi istantaneamente) la solita ridda di ipotesi fantozziane e titoli fantasiosi: La vita segreta dei procioni sub sahariani, Momenti cruciali nella storia dei dervisci rotanti, Il concetto di suicidio nella letteratura svedese contemporanea. Quasi tutti sono in bianco e nero, per la comoda durata di tre ore, tre ore e mezza, spesso in ungherese con sottotitoli polacchi. Ma vuoi mettere la cultura?
In effetti, sulla carta la storia di Village at the End of the World ricorda un po’ quei procioni. Un documentario che segue per un anno la vita di Niaqornat, un villaggio nel Nord della Groenlandia dove i cani da slitta sono quasi il doppio degli abitanti (cento contro cinquantanove). Tutto girato in groenlandese (una variante della lingua Inuit) o danese e sottotitolato in inglese. Però dura solo 82 minuti, ed è a colori – splendidamente fotografato in digitale nei toni del blu e del rosso, anzi.
Candidato come miglior documentario al BFI London Film Festival nel 2012, l’opera seconda dell’inglese Sarah Gavron ha trovato uno spazio commerciale grazie alla piccola casa indipendente di distribuzione Dogwoof. Village at the End of the World è più di un semplice collage di immagini mozzafiato di un angolo sconosciuto di mondo: Gavron e suo marito esplorano con rispetto la cultura e la storia una comunità minuscola, i suoi problemi ma soprattutto i suoi successi.
Gli autori seguono in particolare due storie: quella del giovanissimo Lars, unico adolescente di Niaqornat con la passione per il Liverpool (e per le ragazze) e quella dell’industria di trasformazione del pesce, unica fonte di sostentamento per il villaggio. Un tempo proprietà della Corona di Danimarca, la fabbrica era stata dismessa per gli eccessivi costi di mantenimento, mettendo a rischio la stessa esistenza della comunità – ma grazie ad un impressionante sforzo collettivo (testimoniato nel documentario) l’industria potrà ripartire, diventando una cooperativa. In mezzo, ci sono i turisti che approdano sulle coste groenlandesi con il cargo estivo, la caccia al narvalo e all’orso polare, l’addetto alle fogne che ogni mattina svuota i pozzetti delle case nella sua carriola – il freddo artico non permette di mantenere un sistema efficiente di tubature per la bisogna…
Il trailer in lingua originale.
Siamo andati a vedere Village at the End of the World all’ICA (Institute of Contemporary Art) a due passi da Buckingham Palace, e queste sono le domande che il pubblico ha posto alla regista e a suo marito, direttore della fotografia.
Cosa vi ha spinto a imbarcarvi in un’impresa così difficile?
Da bravo danese, mio marito è da sempre affascinato dalla cultura Inuit. Volevamo fare un documentario sulla popolazione che vive in Groenlandia da molto tempo, senza però ricadere nei clichés cinematografici del genere – gli Inuit cacciatori solitari che vivono fuori dal tempo, custodi di una cultura arcaica che non fa uso delle armi automatiche, e via romanticizzando.
Che difficoltà avete incontrato con il genere documentaristico?
Fino a quel momento avevamo lavorato solo a film di finzione, ma quando si gira un documentario la sfida è opposta: la verità è lì davanti ai tuoi occhi, e devi costruire una narrazione capace di incapsularla in un’ora e venti di proiezione. In questo senso, la figura più importante non è tanto il regista, ma il responsabile del montaggio (e ce ne sono ben tre in questo film, nda), perché senza il loro aiuto non saremmo mai stati capaci di selezionare e organizzare quasi cento ore di girato.
Come avete organizzato le riprese?
Abbiamo fatto più viaggi in Groenlandia, almeno uno per ogni stagione, e abbiamo lasciato una camera a mano all’addetto alle fogne, l’unico che parlasse sia inglese sia danese. La lingua inizialmente sembrava un problema: solo Lars e pochi altri potevano comunicare in danese, e solo con mio marito. Non potevamo permetterci un interprete (non solo per motivi finanziari, ma anche perché le condizioni delle riprese erano proibitive), ma per fortuna le persone si sono dimostrate amichevoli e bendisposte – il linguaggio non verbale ha fatto il resto. Per preparare i sottotitoli inglesi abbiamo dovuto chiamare una signora danese da Copenhagen, a quanto pare nessuno parla il groenlandese nel Regno Unito..
Si respira un clima molto intimo e familiare tra voi e gli abitanti del villaggio..
È esattamente il risultato che cercavamo – ed è per questo che abbiamo scelto di non usare nessuna voce fuori campo per portare avanti la narrazione. Da sempre la Groenlandia e i suoi abitanti sono oggetto di due tipi di attenzioni cinematografiche: i documentari naturalistici su foche e orsi polari, oppure il genere del social realism che si concentra su problemi quali l’alcolismo giovanile, i suicidi, l’emigrazione. Siamo molto contenti che il film abbia trovato una distribuzione commerciale nel Regno Unito, perché la Groenlandia rimane un paese quasi sconosciuto al di fuori della Danimarca.
Come avete finanziato il progetto?
Abbiamo portato avanti il progetto per passione, non certo per denaro. È stata una lavorazione molto lunga, interrotta per lunghi periodi quando tornavamo in Europa per lavorare a produzioni televisive o progetti commerciali che potessero garantirci un’autonomia finanziaria per fare quello che volevamo.
Quanto tempo sono durate le riprese? Perché avete scelto proprio Niaqornat e non un altro villaggio?
Prima di iniziare a girare abbiamo viaggiato attraverso la Groenlandia, visitando i villaggi che ci sembravano più adatti per i nostri obiettivi. Niaqornat è uno dei più piccoli, ma non è minuscolo – ci sono villaggi di sole quattro persone! La popolazione ci ha accolto molto bene, tutti hanno accettato di ospitarci di comune accordo votando in un’assemblea. Alcuni però hanno preferito non mostrarsi davanti alla camera, ad esempio la moglie dell’addetto alle fogne – ed è un peccato, perché è stata proprio la sua bellezza a spingerlo a migrare verso Nord per sposarla.
Come vivevate a Niaqornat?
Ci siamo trasferiti con tutta la famiglia, stavamo a volte ospiti dell’addetto alle fogne e di sua moglie, oppure in una piccola casa che d’estate diventa un chiosco – niente acqua corrente, niente tubature per le fogne, ma con l’elettricità (che è arrivata a Niaqornat solo nel 1988, nda). Nostro figlio ha fatto il primo e il secondo compleanno lassù – in quest’occasione il capo del villaggio gli regalato un artiglio di orso polare, seguendo un’antica tradizione.
Ci sono stati particolari problemi di adattamento?
Non ci sono stati particolari problemi, gli Inuit hanno sviluppato efficaci tecniche di sopravvivenza nell’Artico nel corso di centinaia di anni. Nonostante una dieta quasi esclusivamente a base di carne (ortaggi e frutta arrivano via cargo) non soffrono di malattie cardiache, sono in forma e non hanno problemi di costipazione – l’addetto alle fogne ha sempre un bel daffare, come si vede sullo schermo.. l’unico problema rilevante è l’igiene dentale: nessuno si cura particolarmente della pulizia dei denti e, da quando i cargo hanno cominciato a portare dolci e gelati, le carie si sono diffuse a macchia d’olio..
Come sono i rapporti tra Groenlandia e Danimarca al momento?
Le ultime elezioni hanno portato al governo un partito dalle forti spinte autonomiste, che ha riportato il groenlandese come unica lingua ufficiale del paese (dal 2009) e sostiene le piccole comunità presenti sul territorio. Tuttavia, la situazione è complessa e ancor oggi se il numero di abitanti di un villaggio cade sotto le cinquanta unità, il governo smette di inviare approvvigionamenti e costringe la popolazione a migrare verso il centro urbano più vicino. Inoltre, alcuni aspetti della cultura Inuit sono tuttora trascurati – penso ai cantastorie che girano per i villaggi durante il lungo inverno artico, nessuno ha mai pensato di registrarle e creare un archivio informatico.
Nel villaggio sono religiosi? In che modo questo influenza la vita della comunità?
C’è una mescolanza abbastanza riuscita tra la Chiesa Evangelica Luterana danese e forme pre-cristiane di religiosità. Le sepolture seguono la prima – ma siccome il suolo è ghiacciato per la maggior parte dell’anno, gli abitanti scavano delle fosse preventive nel caso qualcuno muoia durante l’inverno. Ci sono invece delle tradizioni familiari come quella dei Tupilak che si rifanno allo spiritismo pagano della cultura Inuit: sono delle piccole sculture che chiunque può costruire a partire da materiali comuni e che servono per dare corpo ai cattivi pensieri, al fine di esorcizzarli.
La vita nel villaggio è veramente così pacifica? O ci avete trasmesso un’immagine eccessivamente edulcorata di Niaqornat e dei suoi abitanti?
Tutti sono molto pacifici e ottimisti, ma non per altruismo o particolari convinzioni morali. Più semplicemente, è difficile discutere anche solo con una delle 59 persone che vivono nel tuo stesso villaggio – che conseguenze potrebbe avere rompere i rapporti con l’addetto alle fogne..? Senza contare che l’elicottero che porta alla città più vicina passa solo una volta al mese. È necessario tenere sotto controllo le proprie emozioni, specie in un clima così estremo.