L’intrigante lettura di “The last Tycoons”, libro di William Cohan sulla storia della Lazard Fréres & Co – definita dall’autore “the world’s most elite and enigmatic investment bank” – rappresenta un’ occasione per riflettere sull’alta finanza, sulla differenza tra vecchi e nuovi modelli, sui banchieri di una volta. E’ una riflessione anche sulle vicende italiane perchè Lazard è stata per decenni l’alleato di ferro della Mediobanca di Enrico Cuccia.
La maison Lazard affonda le sue origini nell’Ottocento: nel 1848 i fratelli Alexandre, Elie and Simon Lazard, originari dalla regione francese dell’Alsazia-Lorena emigrarono nella Louisiana, a New Orleans, per installarvi un’attività mercantile, successivamente aprirono una sede a San Francisco e seppero approfittare dell’euforia della “corsa all’oro” in California, entrarono così nei servizi bancari. I fratelli Lazard aprirono il loro ufficio a Parigi nel 1852 e, con il passare degli anni, rafforzarono la loro presenza nel sistema finanziario europeo. Si aggiunse poi come socio il cugino Alexandre Weill. Nel 1870 vi fu l’apertura della sede nella piazza londinese. Intorno al 1880 Alexandre Weil assunse il controllo della maison Lazard ed essendo l’unico con eredi maschi, trasmise la proprietà della banca alla sua famiglia. Come i Rothschild anche la Lazard non era un’unica entità ma era suddivisa in tre società distinte: fu presente sulle due più importanti piazze finanziarie europee (Londra e Parigi) e sulla sponda americana.
Nella seconda metà del Novecento la Lazard visse un nuovo periodo di splendore grazie a personaggi come André Meyer, Felix Rohatyn, Michel David Weil, Bruno Roger e Antoine Bernheim. Ma a costruire e ad alimentare il “mito” di Lazard fu, soprattutto, il banchiere di origini francesi Andrè Meyer, che giovane ma tenace agente di cambio, viene notato da David Weill ed inizia la sua collaborazione in Lazard nel 1927.
Lazard insieme alla S.G. Warburg & Co. e a poche altre boutique, incarna, nel Novecento il modello dell’ haute banque, l’alta banca. Nella sua essenza, è un modello diverso e differente da quello dei nuovi protagonisti della finanza globale: differente dalle varie Goldam Sachs, JP Morgan e, per certi aspetti, antitetico ai potenti gestori di hedge funds o ai fondi sovrani.E’ un modello che ricorda quello dei grandi banchieri italiani del Due-Trecento o del Rinascimento. Più vicino ai banchieri toscani che ai merchant-bankers “lombardi”. Si pensi alla Gran Tavola dei Bonsignori di Siena o ai fasti della Firenze “capitale delle arti e dei denari”.
Sono tre le caratteristiche fondamentali di questo modello.
Innanzitutto l’ haute banque trova la sua linfa nella propria autonomia e di essa si nutre. Autonomia, autorevolezza, affidabilità sono strettamente connesse nel modus operandi. Può piacere o meno, ma l’autonomia della finanza non è una prerogativa anglosassone ma una creazione italiana ed affonda le sue radici nella fine del Duecento: non c’era subordinazione rispetto alla politica, né al potere feudale e neanche rispetto a quello imperiale. Non c’era timore reverenziale. Per questo i banchieri italiani, dall’alto Medioevo fino a tutto il Seicento, furono necessari con i loro prestiti e servizi ad ogni Corte ma fortemente invisi ai Re d’Europa. Il banchiere italiano che mette a pegno la corona d’Inghilterra è l’emblema di quella autonomia dalla politica e del distacco dal potere “divino” della monarchia. I banchieri genovesi che, nel secolo d’oro costituivano l’infrastruttura finanziaria dell’Impero spagnolo, avevano una loro autonoma dimensione, una sorta di meta-livello “staccato” dalla gerarchia feudale e nobiliare spagnola. Cuccia sarà l’argine invalicabiile di quella finanza laica ed antifascista che resisterà agli assati del potere democristiano, alle fameliche mire andreottiane.
L’altro elemento fondamentale è che il banchiere è, nel bene e nel male, anche stratega: si occupa di strategie, tesse tele, costruisce scenari. Disfa e ricrea. I difensori del mercato tout court diranno che non è questo il ruolo dei banchieri. Ed è perfettamente vero. Ma nella concezione dell’haute banque il mercato è un’arena, non è un posto per agnellini. Enrico Cuccia ed Andrè Meyer (ma anche il grandissimo Raffaele Mattioli, seppur così diverso dai primi due) progettano e realizzano strategie, costruiscono “cabine di regia”. Determinano prospettive. Quindi non c’è neutralità ma scelta di campo. Non c’è solo business ma molto altro. La dimensione in cui opera l’haute banque – in passato il Banco de’ Medici, oppure nel secondo Novecento, la Lazard di Meyer, la Mediobanca di Cuccia – non è solo finanziaria: l’agire incide e plasma gli assetti proprietari, la morfologia del sistema economico, provoca rotture o determina nuovi equilibri, arriva persino ad intersecare una dimensione geopolitica.
Foto: Orlando Bonsignori nel dipinto di Ambrogio Lorenzetti
Nella seconda metà del Duecento il banchiere senese Orlando Bonsignori fu il “deux ex machina” del crollo della dinastia degli Hohenstaufen: senza il suo appoggio economico, con un imponente prestito di circa 80.000 tornesi, Carlo I d’Angiò, chiamato dal Papa a sostenere il fronte guelfo, non sarebbe mai riuscito ad organizzare un forte esercito (anche allora le campagne militari costavano) né sarebbe riuscito a sconfiggere Manfredi di Svevia (figlio di Federico II e successore al suo trono imperiale) conquistando il Regno di Napoli e Sicilia.
Allo stesso modo Andrè Meyer ha avuto un ruolo da protagonista nel dopoguerra atlantico, che va ben oltre la dimensione bancaria. Meyer fu sovrintendente strategico del Piano Marshall, stretto consulente dei Kennedy (sarà addirittura Meyer a “formulare” l’accordo matrimoniale tra Jacqueline, vedova Kennedy, con l’armatore Onassis ). Dopo la morte di J.F.Kennedy sarà anche consulente del Presidente Lyndon B. Johnson.
Il terzo elemento caratterizzante l’ haute banque risiede nella superiorità tecnica . Nelle elevate capacità, nelle competenze, nel rigore. William Cohan scrive nel suo “The last Tycoons”: “they risked no capital, offering only the raw Darwinian power of their ideas”. E’ determinante dunque la centralità del banchiere. La sua “visione”, il suo agire. Anche questo ha radici lontane.
Nell’ haute banque non c’è bisogno di marketing, non si segmenta la clientela, non si assumono società di consulenza per migliorare il business, non si delega la strategia. Le relazioni sono in mano al banchiere. Prevale l’ intuitu personae. Sono le qualità e le capacità personali che determinano il successo e generano rispetto e ammirazione. Si pensi al prestigio ed alla leadership di Orlando Bonsignori o di Cosimo de’ Medici. Basti leggere il De Roover che ha messo in evidenza le raffinate tecniche operative del Banco de’ Medici. Oppure si leggano le splendide pagine di Armando Sapori sull’eccellenza dei banchieri toscani, Allo stesso modo l’elevata capacità professionale di Enrico Cuccia era riconosciuta anche dai suoi acerrimi nemici. Lo stesso si può dire di Siegmund George Warburg. Ed Andrè Meyer verrà considerato il principe delle operazioni di “merger e acquisition” degli anni Cinquanta e Sessanta. David Rockefeller dirà di Meyer: “In many ways, he is the most creative financial genius of our time in the investment banking field“.
Foto: Siegmund Warburg in1968. Photograph: Stan Meagher/Getty Images
Figure complesse e misteriose quelle dell’haute banque. Piene di luci e ombre. Ma personaggi come Andrè Meyer o Siegmund Warburg sono da rimpiangere? Se si confrontano con i nuovi dominus della finanza internazionale credo proprio di si. Strategia e visione della storia sono sempre più rare nei nostri giorni. I grandi banchieri internazionali hanno un solo orizzonte: che è fatto di bonus astronomici, di stock options ed imponenti sistemi premianti. E’ un orizzonte corto. Ed hanno tutto l’interesse a massimizzare i profitti prima possibile. La finanza globale non ha una Weltanschauung, vive e si alimenta di obiettivi di breve termine.C’è uno straripante cinismo senza alcuna “visione”. I nuovi demiurghi della finanza per prosperare preferiscono un “quadro indeterminato”, l’instabilità e l’incertezza, rispetto a disegni strategici di una nuova Bretton Woods. Alla costruzione di complesse e solide architetture preferiscono un perenne “stato d’eccezione”. La chiave di lettura di molti protagonisti della finanza globale e del loro agire (che ha portato ai disastri del 2008) non risiede forse nelle categorie ontologiche del pensiero di Carl Schmitt?
Non c’è più tempo per i grandi progetti di lungo periodo. Non ci sono più disegni strategici “alti”. Nella finanza odierna predomina la “visione corta”. E’ questa la differenza fondamentale tra i nuovi protagonisti di Wall Street e della City e le figure di spicco del Novecento come Andrè Meyer, Siegmund Warburg o Enrico Cuccia.