Una donna dal labbro tremulo si volge verso un uomo, le guance rigate di lacrime, gli occhi spiritati. Disegna un ampio arco con le braccia, ghermisce il primo vasetto di fiori che le capita sotto mano e lo scaglia contro la parete. Ma la collera non si dilegua. No. S’appoggia alla superficie del tavolo, offrendogli la schiena. Prende a boccheggiare e ruotare la testa convulsamente, gesto che vorrebbe passare per mero scuotimento di capo, ma in realtà sembra preludere a conati di vomito alla Regan MacNeil. Torna a voltarsi verso il tizio. Il tremore si accentua e quelle due sporgenze carnose laccate di rosse si schiudono su una dentatura biancheggiante. Gonfiando il petto in stile Nonna Papera finalmente prorompe: “COME HAI POTUTO FARMI QUESTOOOOOO??? Credevo mi amassi.” E Capitan Ovvio, di rimando: “E’ stato solo un momento di debolezza.”
Purtroppo no, non è una scenetta tratta dal repertorio di tragedie dei dirimpettai cui avrei volentieri assistito sghignazzando con una manciata di pop-corn (anzi no, meglio le patatine) in pugno. E non è neppure il pettegolezzo rotolatomi nell’orecchio incrociando donnine cinguettanti e con giornate fitte di impegni. Proprio no. Si tratta della melensa poltiglia soapposa in cui mi imbatto davanti al piccolo schermo. Sempre, a qualunque ora. Specie in prima serata.
Ora, la domanda, legittima, sale alle labbra: “Ma saranno tutti fatti di crack, i nostri sceneggiatori?” Possibile che nessuno abbia ideato qualcosa che anche solo vagamente si discosti dalle novelle 2000 tradizionali?
A qualcuno la risposta sembrerà scontata e già brandisce forca e fucile contro ‘sti Moccia del tubero catodico. Eppure gli italian screenwriters, che una volta consegnati gli script non vengono più consultati, non sono che prigionieri delle logiche di mercato baciate dai produttori, che giustamente (?) vogliono lucrare sulla stoltezza degli italici buoi. E prigionieri pure di attori-primedonne che intervengono su titoli e dialoghi senza alcuna competenza. Interpreti sprovvisti del sacrosanto e salvifico acting-coach e quindi liberi di avvelenare la narrazione di vocalizzi ed enfasi fuori luogo.
Monaldo di Rotterdam (nome non di fantasia, ovvio), uno che nei sozzi ambienti della fiction ha sempre spinto per l’innovazione, sia in Sky che in Mediaset, si sfoga su Facebook: racconta come il soggetto di una puntata pilota, che prevede l’irruzione a scuola di un giovane armato, gli sia stato cassato. Motivo? “Certe cose non esistono in Italia.”
Eccerto. Perché da noi è tutta fantascienza, noi italiani siamo gente per bene. Mica come quei pervertiti degli americani/inglesi/australiani/australopitechi! Siamo un popolo di famigghie cattoliche dai saldi principi morali (?), noi. Quindi al bando le cazzate delle serie USA, rappresentiamo la vera verità delle cose, noi. Certo.
Eppure, vi dirò: personalmente, non mi sento affatto rappresentato dalle serie nostrane. Sarà che alle 8 di mattina – per fare un esempio banale – coi capelli sparati a destra e sinistra, il mio registro linguistico sprofonda dall’aulico allo scaricatore di porto, e proprio non ci riesco a imbastire un eloquio da ricevimento a Buckingham Palace, specie se il discorso verte su astrattezze avulse dalla quotidianità come “l’amore”. E il vocabolario si restringe a quattro parole biascicate a mezza bocca: “tazza-latte-biscotti-caffè”. Un esempio, il mio, in cui si rispecchiano i coetanei e i poco più grandicelli che hanno incrociato la mia highway to hell.
Potrei anche parlarvi dei cattolici di mia conoscenza, che si saturano la bocca di “amore”, “fratellanza”, “benevolenza”, “carità”, “sacrificio”. Poi, sciamati fuori della chiesa, gridano allo “stupratore assassino” davanti a ogni extracomunitario, indistintamente, e indirizzano sorrisetti beffardi a “froci e ricchioni”. Potrei, sì, ma no: buon materiale per post venturi.
Ora mi preme riportare la vicenda di Ermenegilda da Montebello, che pure srotola la sua personalissima esperienza sul web.
Prima di immergersi nella critica televisiva, ha sviluppato un progetto commissionatole da Mediaset, fresca di laurea in Storia del Cinema. Un progetto di scrittura all’americana che vedeva per protagonisti stravaganti infermieri in un ambulatorio milanese. Ma a quanto pare l’impegno era eccessivo. “Così non va, abbassate la qualità dei dialoghi. E’ troppo per il pubblico italiano”, intima il produttore. E via con l’epurazione di “sottotesto” (per i babbani: dialoghi elusivi, richieste implicite e velate, l’opposto delle nostre battute scontate). Una roba che contrastava non solo con l’etica professionale, ma con tutti gli studi e le ricerche condotte. Scombussolata, Ermenegilda ha girato i tacchi e se l’è squagliata, porella. Ma per approdare alla critica dei telefilm americani, fortunella.
Un universo sfolgorante, quello della serialità d’oltreoceano e d’oltremanica, che dispensa una pluralità di spaccati di vita, non concepisce la realtà della famiglia Mulino Bianco come unica, non legittima comportamenti ipocriti, truffaldini, furbeschi e superficiali, ma si limita a una rappresentazione impersonale, senza pathos eccessivo. Racconta dell’insegnante di chimica che, prossimo al trapasso, si dà alla produzione e vendita di droga per assicurare un gruzzoletto alla famiglia; dell’agente CIA ossessionata dal presunto terrorista che cerca di incastrare e di cui invece si invaghisce; c’è il trentaseienne in gattabuia per presunto omicidio da 16 anni che viene rilasciato grazie a nuove prove e torna in libertà riscoprendo il più misero particolare del Creato con lo stupore dell’infante; c’è la detective tormentata che si vota alla risoluzione di un giallo fino a perdere il lavoro e la custodia del figlio… E la lista potrebbe essere infinita.
Cosa possiamo fare per cambiare le cose? Sperare et pregare, fratelli.
Blog: Seriologia Made in China