ItaliAmoEgitto: golpe per la democrazia o per la restaurazione?

Tagliamo subito la testa al toro, per evitare polemiche strumentali, e chiariamo subito che chi scrive è totalmente (assolutamente e convintamente) a favore della laicità dello Stato. Che sia netta...

Tagliamo subito la testa al toro, per evitare polemiche strumentali, e chiariamo subito che chi scrive è totalmente (assolutamente e convintamente) a favore della laicità dello Stato. Che sia netta la divisione fra potere temporale e secolare, fra religione e politica. Nonchè contrario ad ogni forma di fondamentalismo, specie poi se essa sfocia in violenza.

Ciò detto proviamo ad analizzare razionalmente, e politicamente, quanto avvenuto in Egitto, dove non si è compiuto solo un golpe ma molto di più è accaduto e sta accadendo.

Innanzitutto spendiamo due parole su Mohamed Morsi, se non è chiaro chi era il Presidente eletto dell’Egitto non è possibile comprendere la gravità (attuale ma molto più in prospettiva) della situazione egiziana e non solo.

Ingegnere chimico con una laurea all’Università del Cairo (1975), un master (1978), poi un Ph.D alla University of Southern California (1982), ha operato alla California State University, Northridge dal 1982 al 1985, anno in cui è tornato in Egitto.

E’ inoltre espressione “moderata” dei Fratelli Musulmani, una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali con un approccio di tipo politico all’Islam. Anche qui punto da sottolineare, Morsi è l’anima “moderata e non violenta” di un movimento fondamentalista il cui motto è:

“Dio è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è la nostra via. Morire nella via di Dio è la nostra suprema speranza”.

I Fratelli Musulmani costituiscono in Egitto una formazione politica che si richiama al dovere di fedeltà ai valori islamici tradizionali e uno dei temi maggiormente dibattuto al suo interno è quello del jihād, inteso nel senso di “doveroso impegno”.

Poltico dai modi tiepidi e apparentemente debole di idee, a molti la candidatura di Mohammed Morsi a capo di Stato è suonata strana. Destinato più a una vita tranquilla nel mondo accademicoi, che a un braccio di ferro con la giunta dei militari, il cattedratico è tuttavia emerso come l’unico nome sul quale, il partito dei Fratelli Musulmani diviso tra i riformisti e radicali si è trovato d’accordo.

E nel 2012, nelle fila di questa formazione, religiosa e politica, Morsi è divenuto il primo Presidente democraticamente eletto dell’Egitto, rimasto in carica per circa un anno, fino al 3 luglio 2013.

Morsi ha vinto con 13.230 131 voti pari al 51% contro i 12.347 038 voti di Ahmed Shafiq (48%), ultimo Primo Ministro di Mubārak. Interessante notare che l’Esercito aveva deposto pochi mesi prima, “per il popolo”, il dittatore per sostenere, anche elettoralmente, il suo ex braccio destro.

Tornando a Mohamed Morsi, il suo obiettivo programmatico è quello di ricostruire l’Egitto e ridare dignità agli egiziani in uno Stato “non teocratico”, ma che facesse riferimento diretto alla Sharīʿa, ossia la Legge coranica. Nel programma figurava anche l’impegno di concedere spazio alle donne nella società egiziana e di rimuovere gli ostacoli per la loro partecipazione alla sfera pubblica, proteggendole da qualsiasi discriminazione.

In agosto, coerente col suo proposito (e programma elettorale) ha nominato tra i suoi quattro assistenti un copto di sentimenti “liberali”, Samīr Murqūs, responsabile per la “Transizione democratica” e una donna, la prof.ssa Pakinam al-Sharqāwī, della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università del Cairo, chiamata a condurre il Dipartimento per gli Affari Politici. Gli altri due assistenti fanno parte dello schieramento politico-religioso cui il Presidente stesso appartiene.

Ha poi nominato suo Vicepresidente il magistrato Maḥmūd Makkī, anch’egli dunque non militare, che era stato Vicepresidente della Corte di Cassazione egiziana e fratello di Aḥmad Makkī, Ministro della Giustizia del Governo di Hisham Muhammad Qandil.

Per cui nemmeno un militare nel suo Governo, inoltre dichiara che le opere di risanamento della pubblica amministrazione, investimenti sui servizi sociali e maggiore sicurezza, verranno finanziati con unaa riduzione del budget delle spese militari. E sostiene anche pubblicamente che l’operato dell’Esercito sarà rimesso nelle mani del Parlamento.

Interessante notare il fondamentale ruolo d’intermediazione tra Ḥamās e Israele per il conflitto esploso a Gaza (“Operazione Colonna di nuvole” secondo Israele e “Operazione Ḥijārat sajīl” secondo Ḥamās), che si concluderà con una tregua (seppur fragile) raggiunta proprio grazie all’intervento di Morsi.

Dopo la conclusione di questa iniziativa di pace, che dimostra la volontà dell’ala moderata dei Fratelli Musulmani di cercare una difficile pace e stabilità nel conflitto Israele-palestinese (e con esso in tutto il medio oriente), si è attribuito con decreto amplissimi poteri anche nel campo del potere giudiziario.

Comunque, il fine ufficiale del Presidente sarebbe quello di rendere non impugnabili i suoi decreti presidenziali per mettere al riparo da ogni pretestuoso intoppo il lavoro dell’Assemblea Costituente incaricata di redigere una nuova Costituzione. I suoi detrattori, l’opposizione, considera invece quest’atto l’avvio di una dittatura.

Il decreto richiede anche un nuovo processo da intentare agli imputati dell’era Mubarak che si sono macchiati dell’uccisione di manifestanti e che erano stati assolti, ed estende il mandato dell’Assemblea Costituente di due mesi.

Inoltre, la dichiarazione autorizza Morsi a prendere tutte le misure necessarie per proteggere la rivoluzione.

A questo punto la rivolta di Piazza Tahrir e l’epilogo noto del golpe dei militari e la destituzione di Morsi.

Analizzando la situazione, ed alla luce del percorso di Morsi e dell’escalation di violenze di questi giorni, credo che difficile sarà trovare un’accordo tra un movimento che rappresenta il 50% del Paese e le (ex) opposizioni che rappresentano l’altra metà.

Negli scontri davanti alla sede della Guardia repubblicana sono morti 51 dimostranti e altri 435 sono stati feriti, oltre a due poliziotti e un soldato che hanno anch’essi perso la vita. Lo riferisce un portavoce del ministero della Salute egiziano, Khaled el-Khatib, che non ha però fornito dettagli sulla dinamica dell’attacco.

Ci sono diverse versioni su come siano andate le cose e non è stato possibile conciliarle: secondo i Fratelli Musulmani, esercito e polizia all’alba hanno aperto il fuoco sui manifestanti a sostegno di Morsi davanti all’edificio; l’esercito sostiene invece che a sparare siano stati uomini armati vicini alla Fratellanza, che avrebbero provato a fare irruzione nella struttura poco dopo l’alba e avrebbero aperto il fuoco contro i soldati uccidendo un agente e cinque pro Morsi.

Inoltre, fino a ieri, le opposizioni avevani l’appoggio anche dei Salafiti, il secondo movimento islamista più importante in Egitto dopo la Fratellanza Musulmana, che è venuto meno dopo la diffusione delle notizie della strage di stamattina al Cairo, Al-Nour (Portavoce dei Salafiti) ha ritirato il proprio sostegno al piano di transizione stilato dall’esercito. Ad annunciarlo è stato su Twitter il Portavoce stesso, che ha definito un “massacro” le violenze davanti alla sede della Guardia repubblicana al Cairo.

Per cui adesso l’Egitto è in una situazione di stallo: da un lato i “pro Morsi”, ed a questo punto probabilmente anche dei Salafiti, che manifestano per la liberazione del loro leader (Morsi è tuttora agli arresti) e dall’altro le opposizioni (disunite) che vorrebbero portare avanti la roda map imposta dall’Esercito che prevede elezioni entro il 2014, come da decreto del Presidente ad interim Mansour.

Inoltre fa riflettere la “casualità” per cui sia stato scelto dall’esercito proprio Adly Mansour, ex Presidente della Corte Costituzionale (la magistratura e l’esercito, erano le Istituzioni che Morsi prevedeva di “depotenziare”), come Presidente ad interim.

Adesso mi chiedo, a fronte dell’attuale situazione e senza che intervenga un “deus ex machina” a sbrogliare la matassa, cosa accadrebbe se alle prossime elezioni dovesse vincere nuovamente i Fratelli Musulmani?

Non solo, essendo (stata fatto) fallito il tentativo di cercare di rendere maggioritaria l’area più moderata dei Fratelli Musulmani, perchè adesso non dovrebbe prendere il potere quella più violenta ed estremista?

Come dovrebbe reagire il 51% del Paese che ha vinto le prime elezioni democratiche della storia egiziana, e con un candidato che certo non è un fedayn, ad un golpe che de facto porta al potere le fazioni sconfitte alle urne?

Domande a cui, ad oggi, non ci sono risposte semplici e chiare, ma purtroppo congetture si. E queste portano a credere che difficilmente la stallo potrà essere risolto senza ulteriori violenze.

Sangue che travalicherà i confini egiziani per infiammare tutto il medio oriente, che vedrebbe come uno schiaffo alla propria autonomia ed identità culturale, politica e religiosa, un’avvicinamente dell’Egitto a posizioni troppo continentali.

Senza considerare l’ipotesi, specie dopo che persino Putin l’ha presa in considerazione, di una guerra civile. Che porterebbe forse più velocemente, e ferocemente, all’innescarsi di una serie di esplosioni (non solo politiche) in tutto il mondo arabo. Anche perchè difficilmente Europa e, soprattutto, USA ed Israele, resterebbero neutrali vista l’importanza strategica e politica (nonchè economica) dell’Egitto.

Pertanto cosa accadrà? Non saprei, come scritto, rispondere con certezza, ma ho una paura: cioè che la situazione potrà solo peggiorare. E che il prezzo del petrolio schizzerà alle stelle.

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