Più ci si allontana più è facile, a volte, mettere a fuoco il problema. Anche San Paolo vista da un elicottero, non fa più tanta paura. Sopra le nuvole sembra scorrere lenta la vita nella più grande megalopoli dell’America Latina. Di certo, sono lontani i boatos dello sciopero nazionale che qualche giorno fa hanno mobilitato il paese. Per i paulistanos non ci sono dubbi: hanno fatto più clamore sulle pagine dei giornali di mezzo mondo che lungo le loro strade.
Il 12 luglio in molti hanno scelto di stare a casa, temendo incidenti. La realtà dei fatti ha regalato un’altra verità. Sono scesi in piazza milioni di manifestanti, da Salvador de Bahia a Porto Alegre, da Belo Horizonte a Curitiba, da Florianopolis a Fortaleza e ancora Manaus e Rio de Janeiro ma hanno sfilato pacificamente, chiedendo al governo di sinistra guidato dalla presidente Dilma Rousseff riforme.
I loro cavalli di battaglia erano quelli di sempre: la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali senza il taglio del salario, un aumento per alcune categorie di pensionati e l’archiviazione di un progetto di legge per rafforzare le politiche di terziarizzazione delle imprese. Julio, direttore commerciale di uno storico brand carioca, mi racconta che di questo passo l’anno prossimo la vera finale il Brasile potrebbe giocarsela non al Maracanã, in occasione dell’appuntamento con i Mondiali di calcio, ma sull’arena politica.
“La gente è stanca, ha creduto in Lula, ma se tornasse indietro non gli darebbe fiducia: ha lasciato dietro di sé troppa corruzione”, argomenta. Il manager mette in dubbio una rielezione a un secondo mandato di Dilma. Poco importa se slitterà con ogni probabilità al prossimo anno il referendum popolare per riformare il sistema politico brasiliano. Per Julio questo è solo un dettaglio, che non cambierà di una virgola l’epilogo.
Il vice presidente, Michel Tener, ha cercato di liquidare qualsiasi polemica, dicendo che ”non ci sono le condizioni per svolgerlo prima dell’autunno”. Calendario alla mano, le presidenziali si svolgeranno il 5 ottobre 2014. Quindi qualsiasi riforma dovrebbe essere approvata un anno prima di tale scadenza per essere valida. Che si tratti solo una scusa o di reale impedimento lo dirà la storia.
Nessun commento, finora, è arrivato dal movimento di protesta. Comunque sia, c’è poco da dire. Qui non si parla di crisi dell’euro. Ma, proprio come nell’Europa in frantumi dalla moneta unica, anche in Brasile i tempi dell’agenda politica sembrano non voler coincidere con quelli delle urgenze reali.
Twitter: @Micaela Osella