PalomarUna manifattura generatrice di valore

C’è chi comincia a vedere una luce in fondo al tunnel (Saccomanni). Altri, molto più cautamente, intravedono forse un lumicino (Squinzi). Altri ancora intravedono qualche barlume positivo, ma invit...

C’è chi comincia a vedere una luce in fondo al tunnel (Saccomanni). Altri, molto più cautamente, intravedono forse un lumicino (Squinzi). Altri ancora intravedono qualche barlume positivo, ma invitano alla cautela (Zanonato). Letture diverse della situazione in cui versa il nostro sistema produttivo, tutte peraltro legittime e fondate. Sì, perché la crisi in cui siamo immersi polarizza e rende più complesse le condizioni. Non consente analisi univoche. In un medesimo un settore – anche fra quelli che hanno performance positive – non tutte le imprese che vi appartengono vanno bene. Gli stessi distretti industriali offrono risultati (dis)articolati fra loro e al loro interno. Di qui, le interpretazioni diventano più complicate e ciascuno – legittimamente – può sottolineare aspetti diversi. Tutte, comunque, vanno prese seriamente perché raccontano un pezzo di verità e richiedono interventi mirati. Se è ovviamente fondamentale scrutare con la dovuta attenzione i dati per capire qual è lo stato di salute dell’economia, è altrettanto necessario scorgere dove stiano i segnali di trasformazione delle imprese, dove si annidino i processi di adattamento positivo al nuovo contesto competitivo globale, quali siano i percorsi di innovazione intrapresi. Com’è noto, si tratta di fenomeni che si generano lontano dai centri, sfuggono alle statistiche, ma sono quelli che tracciano un percorso: sono imprese anticipatrici, sono comunità territoriali che fanno da incubatori. Sotto questo il profilo, al di là delle performance economiche non più brillanti come il tempo che fu, il Nord Est esprime una capacità riflessiva, una reazione, che difficilmente è così diffusa in altri contesti territoriali. È un innovatore di confine. E proprio perché è al confine, distante dall’addensamento e dalle rigidità del centro, riesce a percepire prima cosa sta accadendo nei dintorni, otre a se stesso.

Sono almeno due i segnali recenti utili a indicare questo processo di morfogenesi. Il primo è riconducibile al tornare ad affermare una centralità del ruolo del manifatturiero per la crescita del Paese. Già l’Europa lo indica nei suoi programmi, il governo Letta lo ribadisce, Confindustria lo sottolinea di continuo. Ma – e qui sta la novità – non si tratta più di una rivendicazione gridata old style, quanto la volontà, da un lato, di riassegnare alla capacità produttiva il ruolo di vero creatore di valore, dopo la sbornia della finanza creativa. Dall’altro lato, quello di delineare un’idea nuova del fare impresa in cui l’innovazione (tecnologica, ma anche organizzativa) costituisce il filo rosso dell’azione imprenditoriale quotidiana. Dove la qualità del prodotto si deve sposare con la dimensione estetica, con la personalizzazione, per offrire al cliente un prodotto che “comunichi” un’emozione, uno status, una cultura e un territorio: è il nuovo Made in Italy 3.0, in cui la dimensione materiale e immateriale della produzione si fondono in un tutt’uno. Messaggi che sono rivolti in primo luogo agli stessi imprenditori, alla necessità di prendere coscienza di un paradigma produttivo profondamente mutato. Così come è avvenuto in un recente convegno promosso dalle Confindustrie del Centro-Nord dell’Italia (di per sé elemento di novità) a Mestre, benedetto dalla presenza dello stesso Squinzi, sottolineati anche dal Presidente dell’associazione veneta Zuccato. Oppure dallo stesso Presidente Pavin (Confindustria Padova) quando incita i colleghi ad avere una “ossessione quotidiana per l’innovazione”. È l’affermazione delle aree più industrializzate del Paese (e d’Europa) che non vogliono arrendersi all’idea del declino di uno fra i paesi a maggior tasso manifatturiero al mondo. Per onestà, va anche detto che indicare questa prospettiva implica prefigurare un processo di selezione fra le stesse imprese. Quante saranno in grado di intraprendere un simile percorso? Certamente, per non perdere un tessuto imprenditoriale e competenze professionali ricco, è necessario realizzare le condizioni affinché la maggioranza fra loro possa sperimentare un cambiamento per avere una continuità. Quello che è sufficientemente certo è che tale orizzonte industriale costituisce una sorta di “cruna dell’ago” necessaria per recuperare produttività e competitività. Per ridare slancio alla crescita e consentire al Nord Est (e al Paese) di non perdere ulteriori posizioni nell’economia globale. In una parola: per avere un futuro.

Il secondo segnale radicalizza il precedente. È nel Nord Est dove, ancora una volta, al di fuori dei coni di luce mediatici, si sperimenta qualcosa di nuovo. Emerge sotto traccia la consapevolezza che la prospettiva del nuovo manifatturiero è sì condizione necessaria, ma non sufficiente. La nuova industria deve tornare a relazionarsi con il territorio. Imprese (piccole e medie) che crescono per vie orizzontali, attraverso le reti di relazione con i propri fornitori, che innovano insieme a loro, comprendono che non possono più scindere la progettazione e la ricerca dalla realizzazione, che a sua volta richiede professionalità elevate e specifiche culture del lavoro. E tali fattori devono essere mantenuti e generati sul territorio di insediamento. Di qui, l’importanza di investire nella formazione e nelle culture professionali, nell’ambiente, nelle relazioni con gli altri attori del territorio, con le organizzazioni sindacali, con i mondi dell’associazionismo e del volontariato. È la consapevolezza che il valore di un’impresa non si ferma nel prodotto o nel servizio che realizza, ma nella sua condivisione con le realtà sociali in cui insiste. L’impresa (e con essa i suoi imprenditori e i lavoratori) è un valore sociale, non solo economico. Vanno in questo senso, ad esempio, anche le diverse esperienze di welfare aziendale che si stanno sviluppando, e non solo nelle imprese di più grandi dimensioni. Ed è qualcosa di ancora diverso dalla classica responsabilità sociale d’impresa. È la necessità di ripristinare una complicità e una convivenza fra industria e territorio, fra economia e società, come hanno sottolineato i Presidenti Vardanega (Unindustria Treviso) e Cappellaro (Confindustria Belluno Dolomiti) alle loro assemblea annuali. Una diversa vision del fare impresa (industriale, ma non solo) attraverso una nuova relazione fra industria e società creatrice di valori condivisi, ben rappresentano i paradigmi per rifondare lo sviluppo dell’Italia. Paradigmi che si sviluppano ai confini, nelle periferie, sotto traccia. Segnali di una profonda trasformazione silenziosa. In perfetto stile nordestino.

Twitter: @marini_daniele

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