Per gli addetti ai lavori, è uno di quegli argomenti già affrontati e discussi all’infinito, senza mai aver trovato risposte definitive o soluzioni. Mentre buona parte del mondo sembra ignorare il problema, per chi vive di giornalismo, per chi respira notizie, per chi puccia la rassegna stampa nel cappuccino al mattino, è da qualche anno un tema cardine, fondamentale, imprescindibile. Un quesito tuttora irrisolto, pari a quello relativo alla nascita di uovo e gallina, a come mettere fine a un regime dittatoriale senza imbracciare le armi, o alla vita nell’universo oltre la Terra: come può sopravvivere la carta stampata, nell’era di Internet?
La questione è tornata alla ribalta (non che l’abbia mai abbandonata, a dire il vero) nella giornata di domenica 6 ottobre, grazie a (o per colpa di) Twitter. Ok, trarre ispirazione dalle discussioni dei social network non è esattamente la cosa più originale, negli ultimi tempi, ma questo spunto di riflessione appare meritevole, o comunque più di altri. Tutto ha inizio con l’interessante intervista apparsa sul quotidiano La Stampa, con Matteo Renzi nei panni dell’intervistato, e Massimo Gramellini nei panni dell’intervistatore. Una superstar del giornalismo a colloquio con una superstar della politica. Risultato, un articolo eccezionale, assolutamente da non perdere. Un must-read. Un’esclusiva, appunto, che il quotidiano torinese si è tenuta tutta per sé. Giustamente. Vuoi leggere il pezzo di cui tutti, oggi, parlano? Corri in edicola, paghi un euro e venti centesimi per il quotidiano, e la leggi. Oppure, al massimo, acquisti l’edizione online, da pc a iPad, che costa ancora meno. Così il contenuto è tutelato, l’editore è tutelato, il lavoro del giornalista tutelato (e retribuito). Giusto?
Sbagliato. Perché, come spesso accade in questa era digitale, basta pochissimo per scardinare il ragionamento di cui sopra. Una foto con il cellulare, un copia & incolla, una condivisione su un sito, blog, social network, e il gioco è fatto, addio esclusiva. Un po’ come i “leak” su Internet delle canzoni, o di interi album, prima ancora che vengano lanciati i cd sul mercato, con buona pace degli artisti, dei produttori, dei distributori e di tutti coloro che campano nel/col settore. A lamentarsi del fenomeno, non poteva che essere un attento osservatore del mondo del giornalismo e del web, non a caso autore di un interessante libro sull’argomento (“Il web ci rende liberi?”), ovvero il twitterialmente attivissimo Gianni Riotta: “Dire ‘il link è in edicola’ è spiritoso, ma purtroppo falso. Non retweetto ma ho già ricevuto 10 link a intervista @matteorenzi Gramellini”, scrive a inizio pomeriggio sul suo profilo. Sottolineando un problema esistente, tanto diffuso quanto difficile da risolvere, che rischia di mettere in crisi, se non in ginocchio, intere realtà. Perché, se i contenuti si condividono così facilmente, senza spendere neppure un centesimo, chi compra più i giornali? Chi paga per avere informazioni, se queste sono accessibili facilmente e gratuitamente, in barba alla “riproduzione riservata”, ai diritti d’autore, al copyright, e via dicendo?
Mentre Davide Catalano (@dav1d3) ribatte che i link “mica sono all’intervista. vi sono link a interi quotidiani. repressione, come nella musica, serve a poco”, la giornalista di Vanity Fair Silvia Nucini (@silvianucini) fa notare che l’intervista in oggetto, quella di Gramellini a Renzi, è anche disponibile su Dagospia. Allora @Riotta torna all’attacco, chiamando in causa Marco Castelnuovo (@chedisagio), caposervizio de La Stampa: “Marco, sai quanti link all’intervista mi hanno girato da stamane? Una dozzina”. E Castelnuovo: “lo so. Il primo già alle otto. Ed è un disagio” (pregevole auto-citazione). Riotta chiede “Non pensi servano strade diverse?”. “Certo”, gli risponde il caposervizio, “tipo acquistare una copia online. Ma se non proteggi l’intervista di oggi, tra un anno siamo chiusi”. Ragionamento che non fa una piega. L’ex direttore del Tg1, però, non ci sta: “Marco perdonami ma la proteggiamo con Dagospia tweet link aperti? Tutti i miei studenti accedono giornali gratis”. “Bloccare dagospia non mi pare difficilissimo volendo”, replica Castelnuovo. Si inserisce Giuseppe Smorto (@giusmo1) di Repubblica: “Tutto sommato basta far rispettare la legge”, quindi Cristina Cucciniello (@cri5t1n4c) dell’Espresso, “caso simile: lettera papa a rep. Ho comprato la copia cartacea ma apprezzo pubblicazione rep it”, e ancora Smorto, “Sì, ma sul sito l’abbiamo messa alle 10.30”. Quando qualche minuto fa la differenza. O forse no, visto che Riotta gli fa notare che “l’intervista era online ovunque da alba compreso Dagospia: come si fa?”.
Riotta sforna poi un altro tweet: “Esiste Web che vedono giornalisti e la Rete che usa la gente. Il problema è per i giornalisti andare sulla rete della gente, senza illusioni”, un po’ criptico, ma capace di guadagnarsi 7 retweet e di scatenare una lunga discussione. Nel frattempo, la diatriba iniziata poco prima si accende, con nuovi protagonisti. Tutti, o quasi, addetti ai lavori, s’intende (vedi sopra). Antonella Scutiero (@antoscut), piuttosto drastica: “se continuiamo a ragionare sul modello del cartaceo siamo morti e non lo sappiamo”, mentre Andrea Iannuzzi (@aiannuzzi) del Gruppo L’Espresso chiede: “paradosso: e se Renzi avesse diffuso lui intervista sui propri canali? Sarebbe stato suo diritto? Per me sì”, ma Riotta risponde “secondo te perché non lo fanno allora?”, faccina faccina faccina (sorridente, s’intende).
A quel punto, arriva Luca Sofri (@lucasofri), giornalista e direttore de Il Post, con una soluzione: “basta che quelli che vogliono walls intorno ai propri contenuti non si prendano allora quelli degli altri, video o foto” e “è quello che successe con lettera Papa sul sito Vaticano e avvocati Espresso mandarono diffide a chi la citava”. Perché, sì, c’è anche il rischio di diventare ossessivamente troppo esclusivi, Papa o non Papa. Ancora la Cucciniello: “un orario giusto: salve le copie cartacee e ritorno di click pazzesco”, una “franchigia di 2/3 ore da uscita in edicola poi su sito”, come fanno in molti, con la Scutiero che suggerisce “eventualmente domenica si può allungare tempo offline visto che ci si sveglia tardi”. “Lo so, e serve modello alternativo. Lettori vogliono la cornice, il brand, non solo contenuto”, aggiunge Smorto con un triplo tweet, “studiamo quello che è successo nella musica, altrimenti come li salviamo i giornali? Insomma va pure spiegato che intorno al link rubato c’è un lavoro che va pagato scusate spam ciao”. Scutiero: “punto è che bisogna trovare nuovi modelli: do you remember negozi di dischi e DVD?”, con riferimento al boom della musica online. E della pirateria, con le sue vittime (“ricordiamoci napster e iTunes”). Così ritorna Riotta: “Musica 10 anni fa, poi giornali, poi tocca a università”. Nessuno si salverà. La Nucini: “qui non si parla di salvare le edicole, ma il lavoro che sta dietro all’informazione”.
Un’altra soluzione (non definitiva, per sua stessa ammissione) di Iannuzzi: “primo passo (temo non risolutivo): sarebbe possibilità pagare singoli link”. Niente da fare, dice subito Riotta: “Provato intorno al 2009. Non funziona”. “Era anche era pre-social, poca abitudine a contenuti frammentati dentro flussi, però è vero”, ammette Iannuzzi. “Lo so”, chiude Riotta. Ma “con social anche peggio, più condivisione”, nota la Nucini. E ancora Smorto, a bomba: “facciamo seminario sul tema: come far capire che il giornalismo non è gratis?”. Arriva anche Marco Nurra (@marconurra), altra firma conosciuta: “parliamo di un’intervista a Renzi. Quanto è disposto a pagare il lettore per questo contenuto?”, domanda che si sono fatti un po’ tutti, probabilmente. “Il punto è che oggi puoi pagare solo tutto il contenitore o niente, ma forse non farebbe differenza”, aggiunge Iannuzzi. “Lavorano anche gli edicolanti, i grafici e i distributori”, ricorda la Cucciniello. “Che devono trovare anche loro altre soluzioni”, risponde la Scutiero. Riotta illumina: “Serve un nuovo business model radicale”. Eh, hai detto niente. Infatti Emanuele Bevilacqua (@ebwater) di Internazionale: “serve un nuovo business model radicale, questo è il punto”). Sì, ma quale?
Cristina Cucciniello menziona lo streaming: “mi sorbisco i banner pur di vedere film/tv”. E magari qualcuno si sorbirebbe un banner per leggere Renzi, chissà. Giunge Anna Masera, giornalista, social media editor e caporedattore La Stampa, che se la prende con Dagospia: “problema è che gli han regalato accesso abbonamenti e lui fa come rassegne”. E, ricordiamolo, tutti ancora piangiamo la scomparsa della leggendaria rassegna stampa della Camera dei Deputati, la cui chiusura ha lasciato molti (tuttora) nello sconforto. Ah, i bei tempi. Ma, salvo Riccardo Puglisi (@ricpuglisi), redattore de LaVoce.info, che chiede se “non esistono azioni civili per utilizzi siffatti di abbonamenti?”, la gara delle idee è ormai già aperta: Iannuzzi sul business model “che non abbia le news come elemento fondante ma come commodity fungibile”, neppure il tempo di cercare “commodity fungibile” sul dizionario (pardon, su google), che subito la Nucini “sì, ma il primo anello della catena sono i giornali, no?” e la Cucciniello “soluzione è la qualità: io alzo il culo fino all’edicola se ci trovo Papa vs Scalfari”, un match più appassionante di Wrestlemania. E ancora: “no, il primo anello sono i fatti: raccontiamoli con competenza, la qualità verrà pagata” (Cucciniello). Già, come la Voce di Montanelli, o Newsweek. “Cioè compro il giornale ogni mille anni” (Nucini). “Ma i giornali cartacei non li compra più nessuno inutile accanirsi sul malato” (Scutiero).
Tweet su tweet, per cercare la soluzione. Anzi, la (nostra) salvezza. Massimo Mantellini (@mante) propone, “più che bloccarlo, basterebbe chiedergli di rispettare le licenze delle cose che trova online”. E, mentre prosegue la discussione, arriva l’autorevolissimo Marco Bardazzi (@marcobardazzi), un peso massimo, nonché autore del volume (con Massimo Gaggi) “L’ultima notizia, dalla crisi degli imperi di carta al paradosso dell’era di vetro”: “Mi inserisco nel dibattito solo per segnalare che ora intervista è online”. Tié. Riotta deve intervenire: “Marco, non arrabbiarti: è online da ore, di questo guaio parliamo”. Ma Bardazzi: “E chi si arrabbia? Ora è online su La Stampa, quindi lo segnalo. Prima era solo su siti parassiti”. Ahia, siti parassiti. E meno male che non è arrabbiato. Così, inframezzati solo da Anna Prandoni (@Panna975), direttrice del giornale Cucina Italiana, che preoccupata si chiede “e come? Con finanziamenti? Perdiamo libertà!”, Riotta torna sui siti parassiti. “Come evitiamo parassiti ammazzino organismo che li ospita? Grattarsi e imprecare non basta”. “I paras-siti paghino i diritti d’autore, in base al numero di click e ai ricavi pubblicitari del sito”, dichiara Francesco Luna (@FrancescoLLuna), giornalista (Riotta: “ottima idea: come? E perché nessuno lo fa adesso contro chi ha lanciato intervista Renzi?”). E Bardazzi: “bisogna intendersi su significato di ‘cose trovate online’. È testo estratto da pdf=furto”, non escludendo una denuncia nelle sedi più opportune (“Ci stiamo pensando”). “Ben detto”, riconosce Riotta, “ma quali guardie arrestano ladri? Perché nessuno li persegue?”. “Ci vuole una legge, e anche un accordo internazionale. Dovrebbe valere anche per YouTube, per dire”, nota Luna.
Proposte, idee, argomentazioni si sviluppano anche su twitscussioni parallele, che vedono anche ulteriori interventi illustri. Quali Daniele Bellasio del Sole 24 Ore (@dbellasio): “il problema è convincere le redazioni che si può chiudere un giornale alle 21 massimo”. “E smettere di fare giornali cartacei per non prendere buchi da SkyTg24 e agenzie”, dice David Carretta (@davcarretta), corrispondente di Radio Radicale. “Ha ragione Bezos: giornali oggetti di lusso, solo qualità, no prese in giro”, Bellasio dixit. E, tra le altre firme conosciute e Twitter-celebrities intervenute, anche Guia Soncini (@lasoncni), @insopportabile, Donatella Scarnati (@donatellaesse), “bravo Riotta ad affrontare l’argomento. Assurdo chiudere a chiave articolo importante quando online è ovunque. Impensabile sfida carta web”, Matteo Grandi (@matteograndi) di Piacere Magazine, che ha proposto di discutere il tema al prossimo festival del giornalismo, Dario Donato (@Dario_Donato) di ClassCNBC e Mediaset (“pensate che i freelance siano solo quelli in Siria? I freelance sono quelli che fanno la bianca a Bollate”) e Alberto Infelise (@albertoinfelise), caposervizio de La Stampa, sulla stessa linea d’onda di Riotta: “pericolo è pensare che tutto possa essere gratis: dovrà cambiare il modello, o alternativa sono i blog”.
Una lunga, avvincente e appassionante domenica trascorsa a eviscerare e discettare su una questione destinata a essere sempre più di attualità, nel variegato e fragile mondo dell’editoria. Come ha notato l’esperto di comunicazione nonché deputato Antonio Palmieri (@antoniopalmieri), “Grazie per la discussione. Tema da approfondire”. Da approfondire, senza dubbio, perché le idee sono molte, ma confuse. Un po’ come per il global warming, non c’è unanimità da parte del mondo accademico. E, un po’ come per il global warming, non si intravedono soluzioni concrete, né tantomeno definitive. Inoltre, un elemento che non può non saltare agli occhi: nell’interessante scambio di vedute scaturito dal Riottweet, salvo rarissime eccezioni, la quasi totalità degli interventi è da attribuirsi solo ad addetti ai lavori. Perché, come detto, per chi vive di giornalismo, per chi respira notizie, per chi puccia la rassegna stampa nel cappuccino al mattino, è da qualche anno un tema cardine, fondamentale, imprescindibile. Mentre buona parte del mondo sembra ignorare il problema. E quella parte del mondo, piaccia o meno, sono i lettori.