Faber, fabriVent’anni e (almeno) ce l’ho fatta

Sul numero de L'Espresso della settimana appena passata ecco pubblicata in copertina la foto di una bellissima ragazza che volge gli occhi al cielo con fare speranzoso con l'interessante titolo "Ve...

Sul numero de L’Espresso della settimana appena passata ecco pubblicata in copertina la foto di una bellissima ragazza che volge gli occhi al cielo con fare speranzoso con l’interessante titolo “Vent’anni e ce l’ho fatta”. Con un incipit del genere non posso che sfogliare il sommario, cercare la pagina dell’articolo e correre a leggere come può avercela fatta una ragazza così giovane, essendo anche io della categoria e cercando istruzioni per l’uso ovunque.

Scopro subito, con mio enorme rammarico, che le voci che raccontano la loro storia nell’articolo non appartengono a ragazzi diciamo dai 20 a 25 anni, ma solo dai 17 ai 20. In sostanza si parla di neodiplomati o quasi neodiplomati. Ecco che mi sento immediatamente esclusa dalle riflessioni dell’articolo. I miei 20+3quasi4 anni raccontano qualcosa di completamente diverso. E non manca di farmelo notare chi scrive nelle prime righe: “La differenza tra i ventenni e quelli che hanno anche solo 4,5 anni di più è enorme. Loro (i ventenni, ndr.) entrano nel mondo nel pieno dell’età della crisi, e i riti di passaggio all’età adulta cambiano.”

È vero: 3quasi4 anni di vecchiaia in più oggi fanno una differenza enorme, ma con una sfumatura diversa rispetto ai termini in cui è espressa qui.

Prima di arrivare dove voglio arrivare, vado avanti nella sintesi dell’articolo: vi si racconta la storia di 8 ragazzi, che appena maturati hanno preso coscienza delle ristrettezze economiche della famiglia, scegliendo di intraprendere una strada alternativa, che permettesse subito di portare qualche soldino a casa e aiutare la famiglia. Insomma crisi sì, ma almeno ci hanno guadagnato in coraggio, spirito d’iniziativa, esperienza, autonomia.

Chi ha la mia età o poco più sa già dove voglio arrivare. Io credo che la crisi per i ragazzi del ’90 (e giù verso gli ’80) sia pagata a un più alto prezzo. Abbiamo studiato nelle scuole superiori facendo mille progetti e scoprendo le nostre aspirazioni. Il dilemma più grave sembrava essere: voglio (e POSSO) fare tante cose, quale sarà la strada giusta? Ricordo ancora le gite in edicola a comprare le guide per gli atenei d’Italia più aggiornate, e le serate con la mamma a discutere, a sottolineare, a commentare piani di studio, obiettivi dopo-la-laurea. E poi la scelta della città, anche una delle più costose d’Italia, anche una lontana da casa, ripetendosi nella testa il mantra “tanto è un sacrificio di pochi anni e poi ne saremo ripagati.”

Io sono entrata nel mondo universitario nel 2008, quando la parola “crisi” cominciava ad apparire sui giornali ma un giorno si e tre no, e noi diciottenni non sapevamo che di lì a poco tempo ci avrebbe circondato, sminuendo ogni sogno, ogni piccolo obiettivo. Sono entrata nel mondo universitario quando, per una che ama studiare, sembrava l’unica strada da intraprendere. Mi sono immatricolata in un’università privata, costringendo la mia famiglia a più che dimezzare il budget mensile, tra retta, libri, viaggi, affitto e quant’altro. Ho seguito le migliori conferenze, passato tutti gli esami, fatto 3 viaggi intercontinentali. Ho passato almeno 400 ore sui sedili di Trenitalia, combattendo contro la malinconia e caricandomi di voglia di fare (oltre che di evidenziatori).

E adesso che sono prossima alla laurea specialistica mi sembra tutta una barzelletta. I neodiplomati di oggi sono più maturi dei neodiplomati di 5 anni fa, è vero. Ma per una – diciamo – contingenza storica. Hanno avuto il vantaggio di sapere sin dall’inizio quale fosse la reale situazione e hanno scelto di dare uno schiaffo al destino, bussando alle porte del lavoro, facendo subito pratica – e non per questo rinunciando alle loro passioni. E noi? Se avessimo avuto 5 anni di meno, forse saremmo comunque entrati nel mondo fatato dell’università, scegliendo consapevolmente di avere sul cv innumerevoli esperienze di studio e zero esperienze lavorative. Forse avremmo ragionato come la suddetta bella ragazza che, preparandosi per i test di medicina, afferma nella sua mini-intervista: “L’idea di rimanere ancora sui libri per sei anni mi spaventa però allo stesso tempo sono una rassicurazione. Fra sei anni sarà finita, questa crisi, no?!”

Forse si, forse no. Ora bisogna andare avanti così, nascondendo la disillusione e sfoderando i sorrisi di riserva. D’altra parte, se la mamma è felice per un 30 e lode, sono felice anche io.