E sono cento. Cento anni dalla nascita di Albert Camus. Scrittore oltre che filosofo, almeno così viene presentato, come se poi le due cose potessero essere disgiunte, come se chi scrive non si interrogasse sul perché scrive e sulla vita in generale. Come se i filosofi fossero solo quelli col papillon che fumano la pipa dietro a una scrivania. E forse proprio perché Camus si interrogava su queste cose ha espresso uno dei concetti più fulminanti: “Tutti gli uomini sani hanno pensato al suicidio”. Ed è la stessa cosa che ho pensato anche io quando ho sentito a “Che tempo che fa” Fabio Volo presentare il suo ultimo lavoro da scrittore, dichiarando soddisfatto di aver citato all’inizio del libro una frase di Camus: “C’è sempre una filosofia per la mancanza di coraggio.”
Ovviamente ho pensato anche io al suicidio, ma non al mio, a quello di Volo.
Che oltretutto sarebbe un’ottima trama per un romanzo, il suicidio dico.
Un ragazzo degli anni ‘80, periodo in cui “si rideva al lavoro, a scuola, con gli amici e soprattutto si rideva in TV”, a un certo punto smette di ridere, perché rifiutato da una ragazza, e si rende conto del non senso della vita. Decide di suicidarsi, ma non ne ha il coraggio. Allora cerca una filosofia qualsiasi che giustifichi la sua mancanza di coraggio, però poi un amico secchione gli dice che Camus aveva parlato anche di un suicidio di tipo “filosofico” che si poteva fare senza farsi del male fisico. Insomma, era un suicidio conveniente: potevi sempre dire in giro di esserti suicidato, ma solo filosoficamente, perché avevi letto Camus.
Questo amico, ovviamente anche lui degli anni ’80, continua dicendo che il suicidio filosofico è il suicidio del pensiero, della critica. È l’abbandono a un qualunque Dio o valore, è la cosa che permette ai dogmi, alle tradizioni e alle superstizioni di comandare la nostra vita.
Ma il ragazzo degli anni ’80, ancora triste per il palo avuto dalla ragazza, non capisce un cazzo di quello che gli ha appena detto l’amico secchione e glielo dice apertamente: “Quella mi dà palo e tu mi parli di Camus?”
L’amico degli anni ’80 allora se ne va in depressione, perché si sente incompreso perfino dal suo amico, e si ammazza. Per davvero però, non filosoficamente.
Allora il ragazzo degli anni ’80 capisce che la filosofia è pericolosa, peggio della TV e, diversi anni dopo, trova anche lui il coraggio di suicidarsi per davvero, anche perché nel frattempo ha scoperto che non amava la ragazza che gli aveva dato il palo, ma il suo amico secchione che, però, ora non c’è più.
Decide di farlo platealmente, durante uno speciale di “Che tempo che fa”, mentre parla Fabio Volo.
Lascia però un biglietto, su cui scrive che morire, suicidarsi, è un errore imperdonabile, è una cosa che non ha senso, pure secondo Camus. Non ha senso infatti suicidarsi per fuggire a un mondo senza senso, a quel punto conviene trovare un senso al non senso e chiuderla lì. Fare ciò che più ti piace e in grande quantità, quello sì che ha un senso.
Ma lui decide di farlo comunque, perché è un ragazzo degli anni ’80. E gli anni ’80, si sa, sono un po’ così.
Senza senso.