L’incredibile storia di Sixto Rodriguez, la cultura in TV e il perché bisogna sempre andarla a cercare all’estero. Senza considerare che, talento a parte, per vivere d’arte c’è bisogno di una sola cosa: un’enorme botta di culo.
E ti capita di stupirti ancora. La storia è questa: Sixto Rodriguez è un compositore e cantante degli anni ’70. Di quelli alla Bob Dylan per intenderci, o alla Patty Smith. Di quelli che tutti conosciamo, anche se poi non sappiamo fischiettare nemmeno una canzone, per non parlare delle parole.
I suoi produttori non si capacitano, sia quelli dei primi due album che quello del terzo, lasciato a metà e mai pubblicato. A detta loro, aveva un sound e una profondità di contenuti da far impallidire molti mostri sacri, oggi famosissimi. Ma è il mercato musicale, può capitare.
Non si sa come però, qualche copia dei suoi dischi finisce nel Sud Africa, in un periodo di grande isolamento e fermento di quella nazione. Sixto Rodriguez diventa una bandiera, qualcuno con cui identificarsi. I giovani che si oppongono all’apartheid e che manifestano per strada contro la polizia, cantano le sue canzoni, che vengono proibite dal Governo con l’unico, paradossale, risultato di aumentarne ancora di più la popolarità.
Due etichette indipendenti cominciano a ristampare i suoi vinili, poi i cd. Si parla di milioni di copie vendute: Sixto Rodriguez è una icona con cui identificarsi, un mito. Qualcuno ci mangia un sacco di soldi con le vendite, ma nessuno al di fuori del Sud Africa ne è conoscenza. Nemmeno Sixto Rodriguez.
Tra i suoi numerosissimi fans si sparge, forse ad arte, la voce che sia morto suicida. Fino a quando due ammiratori incalliti non mettono in dubbio la cosa e iniziano a cercarlo, sulle tracce dei suoi testi, a Detroit. Lo fanno nel modo più semplice possibile: mettono la sua foto sui cartoni del latte.
Per sapere come finisce, potete guardare il documentario Searching for Sugar Man. Uno stupendo film girato con un budget così limitato da costringere il regista a concludere alcune delle riprese utilizzando il suo iPhone.
È il ritratto di un artista, una visione che fa molto riflettere: sugli artisti e musicisti sconosciuti e che rimangono tali per ironia del destino, su tutti i Proust, Joyce, Wallace mai scoperti perché hanno lasciato i loro manoscritti nei cassetti o perché hanno incontrato l’editore sbagliato, su tutti i Tarantino che non hanno mai avuto l’occasione di esprimersi perché nessuno ha creduto in loro.
È un affresco lucido come una lama, che ti fa capire come l’arte e l’essere riconosciuti ed apprezzati, a prescindere dal talento, può essere esclusivamente una questione di congiunture favorevoli o sfavorevoli. Di una gran botta di culo, insomma.
Inoltre il documentario (click sull’immagine per vederlo su youtube) è un esempio splendido di come si possa fare cultura anche in tv e che cultura non sia necessariamente sinonimo di trasmissioni soporifere alla Corrado Augias o alla Paolo Mieli, di inutili talk show o insulsi reality di aspiranti scrittori che sembrano appena usciti da Shutter Island (giuria compresa).
Da ultimo, e con amarezza, viene da chiedersi perché per vedere un documentario così sia necessario andare a cercarlo sulle TV straniere, ma questo è un altro discorso.
Ogni nazione ha le TV e le favole che si merita.