Photo by Philip Jones Griffiths – Magnum Photos – Northern Ireland – 1973
Contrariamente all’opinione di molti, credo che la qualità del fotogiornalismo non sia mai stata alta come adesso – per estetica, varietà dei temi trattati e pluralità di occhi e voci. Se fino a qualche anno fa i reporter che ci raccontavano il mondo erano per lo più occidentali, ora possiamo vedere attraverso gli occhi di bravissimi fotografi di tutte le nazionalità. Per farvi un’idea vi consiglio di guardare la gallery “2013: The Year in 365 Pictures” che il Times ha pubblicato da poco, facendo attenzione ai nomi dei fotografi.
Purtroppo, a questa golden age estetica e contenutistica del fotogiornalismo, fa da contrarltare un impoverimento sostanziale dei media che dovrebbero finanziarlo: è ormai da tempo che tutti noi appassionati di reportage e fotografia ci interroghiamo su quale possa essere il suo futuro, un dibattito sempre più attuale e necessario, in cui le voci anche autorevoli si rincorrono da una parte all’altra del web e, nonostante la frustrazione di non potere proporre delle soluzioni, è importante continuare a parlarne per dare il giusto valore alla figura dei fotoreporter professionisti – una specie quasi a rischio di estinzione.
Ho recentemente letto l’articolo di David Rohde su Reuters “Will a billion ‘selfies’ cause us to miss history?”, che consiglio anche a voi. Rohde parla di come il web abbia avuto una funzione disorientante e ambivalente nei confronti della fotografia: il web, e le tecnologie digitali, hanno sì reso la fotografia più accessibile e popolare che mai, ma hanno anche minato la fonte primaria di finanziamento del reportage, ovvero gli introiti derivati dalla pubblicità sulla carta stampata.
Photo by Alex Majoli – Magnum Photos – Democratic Republic of Congo – Goma, inside the MONUC head office, Refugees during the screening -2003
Tutti i maggiori outlet di news stanno migrando dalla carta al web, ma i ricavi pubblicitari sul web non hanno – per ora – niente a che vedere con quelli possibili fino a qualche tempo fa sulla carta stampata, e così a rimetterci sono in prima battuta proprio i fotografi, perché si pensa erroneamente di poterne fare a meno vista la facilità con cui si possono reperire immagini online.
Rohde porta l’esperienza del pluripremiato fotoreporter Ron Haviv che, visto il numero limitatissimo di giornali che si assumono oggi i costi di mandare i grandi reporter a coprire gli eventi del mondo, teme non saranno più scattate foto iconiche. Mancando questi occhi esperti, rischiano di mancare anche le immagini iconiche capaci di catalizzare l’attenzione del pubblico. James Estrin, fotografo e editor del Lens Blog del New York Times, si chiede invece – data la velocità e la quantità di immagini che passano sotto i nostri occhi tutti i giorni – se vengano proprio a mancare i presupposti stessi per l’iconicizzazione delle immagini: anche nel caso in cui delle foto potenzialmente iconiche venissero scattate, avrebbero mai il tempo di emergere, sedimentarsi e quindi iconicizzarsi?
Photo by Moises Saman – Magnum Photos – AFGHANISTAN. Kunar Province. March 2010. Afghan soldiers carry a wounded comrade into an American medevac helicopter after a Taliban ambush near the village of Tsunek, Kunar Province.
L’opinione di Rohde, che condivido appieno, è che nonostante i milioni di immagini caricate sui social network giornalmente, le immagini di cronaca che ricordiamo più facilmente, quelle che riescono a diventare iconiche e sedimentare nelle nostre coscienze, sono perlopiù scattate da fotografi professionisti. Come esempio Rohde cita le proteste di piazza Taksim a Istanbul, fotografate da centinaia di persone presenti e condivise in tempo reale su Facebook, Twitter ed Instagram: nonostante questa folla di fotografie, l’immagine che più di ogni altra è circolata e divenuta icona della protesta è stata scattata dal fotografo professionista Osman Orsal.
Rohde prosegue dicendo che 9 delle 10 immagini della “Top 10 Photos of 2013” del Times sono state realizzate da fotografi professionisti, e cita Kira Pollack, direttore della fotografia di Time “Ci sono milioni di immagini là fuori, ma quelle di questi fotoreporter sono le più potenti”.
Non possiamo rischiare di perdere i fotoreporter professionisti, è fondamentale riconoscere il valore del loro lavoro e capire che senza il loro sguardo sul mondo saremmo tutti molto più poveri e facilmente vittime di propagande.
Photo by Paolo Pellegrin – Magnum Photos – Kosovar refugees who have just crossed the border into Albania at Morina on their tractor – Kosovo 1999
Un fotografo professionista ha competenze giornalistiche, segue un’etica professionale, è capace di documentarsi, verificare le proprie fonti. A questa preparazione si accompagna un istinto fotografico che gli permette, là dove chiunque di noi può scattare un’immagine didascalica con un telefonino, di comporne una che sia capace di sintetizzare scenari complessi e di permanere nella coscienza collettiva.
Riflettevo sulla profonda differenza di significato fra le immagini pubblicate da chiunque sui social e quelle fatte dai professionisti: hanno diverso valore d’uso, originano da necessità differenti e appagano bisogni altrettanto diversi. Forse riflettere maggiormente su queste differenze potrebbe rivalutare agli occhi sia del pubblico che dell’editoria il lavoro dei fotoreporter e l’impossibilità di sostituirli con un qualsiasi “reporter improvvisato”.
Innanzitutto qualsiasi immagine che pubblichiamo su un social network rientra nella categoria dei “selfies” (parola dell’anno per l’ Oxford English Dictionary), che sia un autoritratto alla fine poco importa: queste fotografie sono tese alla costruzione della nostra immagine (che sia desiderata o aderente alla realtà), mentre – almeno in teoria – la fotografia di reportage dovrebbe essere “about the issue and not about yourself” citando quanto mi ha detto Brent Stirton, un reporter il cui impegno sociale stimo molto, in un’intervista che ho pubblicato recentemente su Vogue.it.
Photo by Jerome Sessini – Magnum Photos – CUBA. La Havana. January 6, 2008. Downtown Havana. Rationing store.
Una distinzione molto importante già individuata da John Szarkowski, il curatore del Dipartimento Fotografico del Museum of Modern Art di New York dal 1962 al 1991 che nella mostra Mirrors and Windows al Moma nel 1978 aveva diviso i fotografi tra fotografi “specchio” e fotografi “finestra”: i primi utilizzano la fotografia come specchio nel quale riflettersi (e qui oggi rientriamo tutti noi con le nostre immagini pubblicate sui social), gli altri che concepiscono la fotografia come una finestra attraverso la quale osservare la realtà (ovviamente i confini fra le due tipologie non sono netti, e le influenze reciproche evidenti, ma qui si rischierebbe di divagare dal tema che stiamo trattando).
Un’altra distinzione molto importante è che alla base delle immagini sui social c’è, a mio parere, il desiderio di condivisione in tempo reale: è questo il bisogno predominante e il motore primo, tanto che se postiamo un immagine presa appena il giorno prima è d’obbligo l’hashtag #latergram, mentre se la foto è di qualche anno fa l’hashtag diventa addirittura #throwback.
Queste dinamiche istantanee sono nemiche del giornalismo serio e di approfondimento, che è fatto di verifiche, ricerca, controllo delle fonti, ragionamento, (tutte cose che costano parecchio). Certamente L’utilità dei social per la celerità e capillarità con cui possono diffondere notizie e immagini è innegabile, ma l’immediatezza e la velocità non lasciano spazio alla verifica. E questo, nell’ambito giornalistico, è a dir poco problematico. Gli outlet autorevoli di news dovrebbero restare i punti saldi a cui rivolgersi per verificare la veridicità delle notizie e approfondirle, non possono – e non dovrebbero – viaggiare alla velocità dei social network.
Photo by Peter van Agtmael – Magnum Photos – USA. South Carolina. 2011. ‘Wounded’ soldiers are treated during a combat lifesaving course that attempts to train soldiers to treat common wounds during simulated combat.
Anche le grosse agenzie di stampa, per quanto la loro funzione principale sia quella di trasmettere dispacci e non approfondimenti, devono comunque restare autorevoli e verificare sempre l’attendibilità dei fotografi e dei giornalisti con cui collaborano, nonostante queste verifiche costituiscano un onere supplementare e possano rallentare il lavoro.
Pochi giorni fa in Siria è morto un fotografo, Molhem Barakat; aveva 17 anni, forse 19, l’età non è certa ma la sua morte ha sollevato un’enorme polemica essendo Barakat un freelancer che, dal maggio di questo anno, vendeva regolarmente le sue immagini dal fronte a Reuters. Barakat non solo era probabilmente minorenne ma pare che fosse addirittura un aspirante attentatore suicida che aveva cercato di diventare membro dell’organizzazione terroristica Al-Qaeda.
Ho chiesto un parere su questo ultimo fatto di cronaca e sullo stato del fotogiornalismo a Marco Longari, chief photographer e responsabile dei fotografi da Gerusalemme e territori palestinesi per un’altra grande agenzia di stampa, la AFP. Gli ho domandato cosa pensasse del fatto che ormai le grandi agenzie abbiano trasformato e monopolizzato il mercato del fotogiornalismo, grazie a una presenza capillare in ogni parte del globo e la vendita delle immagini a prezzi con cui le piccole agenzie o i fotografi freelancer non possono competere.
Photo by Alex Webb – Magnum Photos – MEXICO. Juarez. Chihuahua. 1975.
L’opinione di Longari è che le agenzie più grosse devono assumersi la responsabilità del loro ruolo di leaders del mercato: i costi che devono sostenere le agenzie di news per garantire una presenza in ogni parte del globo sono spaventosi, fra fixer, logistica, autisti, ecc, ma ciò non giustifica il deprezzamento del lavoro del singolo fotogiornalista. Longari è un professionista molto serio che ha particolarmente a cuore l’aspetto etico del suo mestiere. Mi racconta che quando ha iniziato gli hanno fatto il terzo grado: era essenziale che un fotografo fosse considerato “bona fide”, perché rappresentava la testata per cui lavorava.
Longari prosegue dicendomi che lui stesso si impegna personalmente a verificare i fotografi che lavorano per AFP dai territori di cui è responsabile: non si tratta solo di riportare una notizia ma di verificare, e la responsabilità di verificare non può passare in secondo piano.
Longari insiste poi sulla importanza della regolamentazione e della serietà, dicendomi che quello che lo infastidisce di più è il pressapochismo, ma esortandomi anche a non confondere la mission delle agenzie di stampa (stare sulle spot news, mandando appunto dei dispacci), con quella invece che dovrebbero avere le agenzie come Magnum, VII e Noor, da cui ci aspettiamo dei lavori di approfondimento, per i quali però vengono sempre più a mancare le risorse. Il timore di Longari è che la velocità dei nostri tempi abbia contaminato a tal punto l’audience che non sa più se esista ancora un pubblico che possa recepire gli approfondimenti e appassionarsi a una storia fatta di 40 foto.
Photo by Christopher Anderson – Magnum Photos – AFGHANISTAN. Kunduz. 2001. Taliban fighter seen through the windshield of a Toyota HiLux that has been smeared with mud as camouflage from American bombers surrenders to Northern Alliance troops outside of Kunduz.
Io mi auguro che il pubblico possa interessarsi ancora a storie di 40 foto, mi auguro che sia sempre capace di distinguere fra una photogallery scadente di immagini amatoriali da una composta da scatti di un fotografo professionista, e mi auguro che se ne accorgano anche gli editori perché il rischio, come ha detto Grazia Neri nel suo bellissimo libro “La Mia Fotografia”, è di perderci la storia e senza la storia non ci sono né società né democrazia.
Anche da un punto di vista puramente commerciale puntare sulla qualità delle immagini e non sulla quantità si rivelerebbe sicuramente la strategia vincente per un’editoria in crisi: per attirare l’attenzione dei lettori bisogna produrre contenuti che non siano la replica di quelli facilmente reperibili sui social.
Sul caso Reuters/Molhem Barakat ho chiesto un parere anche a Donald R. Winslow, fotografo ed Editor in Chief del News Photographer Magazine della National Press Photographers Association che mi ha risposto così: “Ci sono troppe domande importanti che non hanno ricevuto risposte riguardo la morte del fotografo Molhem Barakat avvenuta lo scorso venerdì ad Aleppo, domande cui né Reuters né Reuters News Pictures hanno dato alcuna risposta. Secondo Donald il direttore della fotografia di Reuters Reinhard Krause dovrebbe personalmente rispondere a questi quesiti: Cosa faceva esattamente per Reuters Barakat? Come è stato ucciso? In che circostanze? Perché la Reuters stava dando lavoro a un fotografo adolescente in un territorio di guerra? Perché non hanno incluso l’età di Barakat nella notizia che hanno rilasciato ufficialmente della sua morte? Barakat scattava per Reuters dalla primavera di quest’anno: la posizione dell’agenzia è che non hanno mai saputo la sua età per tutto questo tempo?
Photo By Tim Hetherington – Magnum Photos – AFGHANISTAN. Korengal Valley, Kunar Province. July 2008. ‘Doc’ Kelso sleeping.
Molta gente che ha conosciuto Barakat ha detto che Reuters gli pagava $100 per un set di 10 fotografie e che prendeva un bonus ogni volta che una sua immagine veniva pubblicata nel Lens Blog del The New York Times. Come veniva pagato Barakat? Reuters gli forniva equipaggiamenti – macchine fotografiche, computer, telefoni? Aveva ricevuto un minimo di formazione di pronto soccorso? Un giubbotto antiproiettile? Un casco?
L’ufficio pubbliche relazioni di Reuters ha rilasciato una dichiarazione per cui l’agenzia rifiuta di dare più notizie sul caso Barakat per proteggere i giornalisti ancora sul posto in una zona di guerra precaria e pericolosa come quella siriana. Ma se la Siria è una zona di guerra precaria e pericolosa, come mai Reuters ha accettato di avere un collaboratore adolescente e non preparato in un posto del genere?
Come dicevo prima, vi sono notizie che Barakat avesse cercato di entrare nelle fila di un gruppo affiliato con Al-Qaeda e che una delle sue aspirazioni fosse quella di diventare un attentatore suicida, e rispetto a ciò Winslow si chiede anche se Reuters avesse fatto una verifica su quale fosse il background del loro giovane collaboratore. Winslow prosegue domandandosi quale debba essere la responsabilità morale delle grandi agenzie di stampa per quanto riguarda il reperimento di immagini dalle zone di guerra pericolose come quella siriana, dove l’accesso a giornalisti e fotografi professionisti è molto limitato: è accettabile pubblicare e fare circolare immagini di fotografi “attivisti”, embedded con i ribelli, che ovviamente mostrano la guerra da un’unica prospettiva?
Photo by Josef Koudelka – Magnum Photos – PORTUGAL. 1976.
Winslow inoltre prosegue “I picture editors dei diversi organi di stampa che hanno dei contratti con Reuters e le altre grandi agenzie si aspettano ragionevolmente che le immagini che gli arrivano da queste agenzie siano state fatte da fotografi professionisti, che siano autentiche e corrette e che siano state scattate da questi fotografi rispettando i codici etici professionali. Se un immagine arriva al The New York Times da Reuters, come può il photo editor sapere se questa fotografia è stata scattata da un giornalista professionista che rispetta un codice etico o da un adolescente “attivista” diverso dai ribelli solo perché imbraccia una macchina fotografica e non una bomba o una pistola? “
– TUTTE LE IMMAGINI DEL POST SONO DI FOTOGRAFI PROFESSIONISTI DI MAGNUM PHOTOS CHE RINGRAZIO PER AVERMI PERMESSO DI PUBBLICARLE