“Cultura” è una di quelle parole che, assieme a poche altre, fa scattare una serie di meccanismi psicologici e pregiudiziali che è difficile smontare. Pregiudizi molto spesso fomentati da un certo modo di intenderla e praticarla, sia dagli addetti ai lavori (spesso solo altezzosi questuanti) che dai politici (distributori a pioggia di inutili contentini), che ha creato un senso comune profondamente avverso a tutto ciò che ad essa si richiama.
Quindi, tanto per iniziare, potrebbe aver senso darne una definizione laica, ad esempio quella del genetista Luigi Cavalli Sforza, cioè: “l’accumulo di conoscenze e di innovazioni che influenza e cambia continuamente la nostra vita”. Dunque l’evoluzione culturale “è determinata dalla somma delle innovazioni e delle scelte o, più esattamente, dall’accettazione o meno di queste innovazioni da parte della società”.
Cultura, innovazione ed evoluzione del genere umano sono dunque questioni inestricabilmente collegate. In quest’ottica è contenuta un’indicazione strategica per il futuro del Paese nel quale viviamo. Ciò di cui infatti si avverte l’esigenza è la definizione di un piano culturale e strategico di lunga portata, che smetta di inseguire l’emergenza e ponga le basi per uno sviluppo, umano ed economico, più concreto e duraturo. Sviluppo i cui pilastri devono necessariamente essere le fondamentali declinazioni del “sistema della conoscenza”, dal quale nessuna prospettiva di progresso può prescindere.
Viviamo una crisi economica che ha radici sicuramente mondiali ed europee, ma che risente di un aggravio notevole in Italia per via di un improbabile “sviluppo senza ricerca” che inseguiamo da decenni, accumulando un sempre maggiore ritardo di crescita. La storia dei Paesi che più sono progrediti nell’ultimo trentennio ci ha messo di fronte all’evidenza dell’“economia della conoscenza”, che risponde ai bisogni dello sviluppo con sempre più “cultura”. Economia della conoscenza che noi, ad oggi, non abbiamo ancora agganciato.
Ad identificare i principali assi di sviluppo economico, con questo nuovo paradigma, è stato Umberto Eco, declinando la “cultura” e i suoi rapporti con l’economia in tre aree principali: a) l’industria culturale tout court, e cioè: design, artigianato, arti visive, audiovisivi, editoria, spettacolo e media; b) la formazione, nel suo ciclo completo: dalla scuola primaria ai post doc; c) la ricerca scientifica, cioè lo sviluppo tecnologico e la produzione di beni e servizi hi-tech, in cui è compreso sia l’aspetto “health” che quello energetico.
Questi elementi, nel loro complesso, rappresentano attualmente oltre la metà del PIL mondiale. Il “sistema Italia” finora ha però agito poco e male su di essi, rimanendo fanalino di coda. Ha ancora senso, nell’ottica del “triangolo di Eco”, considerare le attività culturali come qualcosa di completamente scollegato dal discorso imprenditoriale, di innovazione e di ricerca? Piuttosto, esse non dovrebbe essere il fulcro di una programmazione culturale, e dunque economica, di più ampio respiro?
Potrebbe essere questa nuova chiave di lettura a favorire l’insediamento e il potenziamento di attività imprenditoriali che investono in innovazione e che, dunque, hanno necessità di personale qualificato? In una prospettiva di questo tipo, l’Università e gli altri Enti di ricerca potrebbero essere agevolati nel loro rapporto con le amministrazioni pubbliche e il mondo imprenditoriale e viceversa per una virtuosa collaborazione? Si riuscirebbe a ridare alla formazione il ruolo apicale che le spetta nella società della conoscenza che viviamo, sottraendola al giogo avvilente a cui i vari Enti e società di formazione di basso profilo l’hanno relegata?
Può l’Italia, ragionando su queste tre declinazioni culturali, effettuare un piano di sviluppo sociale e imprenditoriale che diventi terreno fertile per start up innovative, a cominciare dalle infrastrutture, fisiche e immateriali, di cui esse necessitano?
Vi sono enormi quantità di dati che dimostrano come, utilizzando queste tre leve, alcuni Paesi abbiano agganciato lo sviluppo meglio di altri, risentendo molto meno la crisi e avendo una posizione di vantaggio per il futuro imminente. Parlando di cultura è dunque possibile coinvolgere profondamente la realtà economica ed è vero anche il viceversa, molto più di quanto si pensi.
Tutto questo richiede però la definizione di un piano, la capacità degli attori, politici e non, di mettersi seriamente in gioco, un orizzonte sociale, amministrativo e politico che superi la linea di demarcazione del consenso popolare immediato.
La strada del cambiamento non è tracciata sulle cartine geografiche o sulle mappe, ma sul grande ed ancora inesplorato territorio culturale.
Riuscirà l’Italia a imboccare rapidamente questa strada o continuerà colpevolmente a canticchiare “il triangolo no, non l’avevo considerato”?