Le ArgonauticheHer e i casi umani

Il film "Her" ha un che di perverso. Di quella perversione che non deriva dall'osservare qualcuno che fa qualcosa che non farebbe mai in pubblico, ma di quella perversione che si sperimenta mentre...

Il film “Her” ha un che di perverso. Di quella perversione che non deriva dall’osservare qualcuno che fa qualcosa che non farebbe mai in pubblico, ma di quella perversione che si sperimenta mentre fai qualcosa da cui ti estranei per poi osservarti fare quel qualcosa che prima non avresti mai fatto in pubblico, ma che poi fai e non te ne frega più di tanto.

Uno, al solito sfigato ed estraniato dal mondo, divorziato e non si capirà mai perchè, inizia una love story con un programma. Certo, definirlo programma è riduttivo, ma insomma: è un componente software che comunica con le persone tramite un sintetizzatore vocale.

Il protagonista, all’inizio del film, sceglie se dare al sintetizzatore vocale del programma la voce maschile o femminile. Domanda: se avesse scelto maschile sarebbe stata una storia d’amore omosessuale? Forse questa semplice cosa avrebbe dato una svolta al film, sottraendolo alla mediocrità narrativa di cui è vittima.

La voce scelta invece è femminile, che nell’originale è quella di Scarlett Johansson, che anche solo con la voce ti fa capire quanto è figa, ma allo stesso tempo il messaggio che arriva è chiaro: anche se è solo un software, il semplice fatto che sia “femmina” implica, dopo il primo periodo rose e fiori, che tutto diventi una tremenda rottura di palle, compresa la fase “forse non ti piaccio per come sono” (fortuna che, per ovvi motivi, non viene mai considerata l’annosa questione dei vestiti e/o parrucchiere).

Fase depressiva dalla quale il programma sembra uscirsene magnificamente tradendo con alcune centinaia di altri uomini il povero sfigato e depresso, che a questo punto si sente ancora più sfigato e depresso. Da “buona donna” però, il programma fa passare questa cosa come “normale”, imputando il tutto a una semplice differenza caratteriale. Come no.

E vai a darle torto: come se quello normale potesse essere lo sfigato in carne ed ossa che si innamora di un computer fino al punto da farci del sesso, raccontandolo pure fiero ai suoi colleghi.

Comunque, fossi io una femminista mi incazzerei subito, e tantissimo: perchè questo stereotipo femminile anche su un computer? A torto, ma mi incazzerei lo stesso, perchè le femministe fanno questo di professione: si incazzano. E non domani, subito, ora. Se no quando?

Il film però è così stupido che ti fa riflettere, come ti capita tutte le volte che vedi o senti una cosa così banale che pensi che non possa essere davvero così banale, che no, che in fondo sotto c’è qualcosa a cui non avevi pensato, un messaggio nascosto, qualcosa di subliminale che, sotto l’apparente semplicità, nasconde un che di profondo, di riflessivo, di introspettivo. E così, per rivestire di utilità le due ore di inutilità del film (fatta salva, ripeto, Scarlett Johansson), ti viene da chiederti: ma una macchina potrebbe davvero arrivare a tanto? Ad interagire in quel modo con una persona? Ad essere così intelligente?

La stessa domanda se l’è posta già negli anni ’50 dello scorso secolo Alan Turing, che per l’appunto ha inventato il “Test di Turing” per verificare se una macchina è in grado di pensare o meno. Come funziona? Semplice: si fanno delle domande e poi si osservano le risposte: se chi fa le domande non riesce a capire se a rispondergli è un “essere umano” o una “macchina” allora la macchina ha superato il test di Turing e può essere definita “intelligente”, perchè indistinguibile da un essere umano.

Ovviamente, nel caso il test non sia superato, può sempre rimanere il dubbio se dall’altro lato a rispondere ci sia davvero una “macchina”, magari con un programma software ancora da migliorare, o un telespettatore di Voyager. Ma a questo nemmeno Turing ci poteva arrivare.

Nel film però si fa un passo in più: queste macchine non solo pensano, ma provano anche sentimenti, diventano quindi umane a tutti gli effetti, tranne per il fatto di non essere umane, e quindi a tutti gli effetti stronze. Stronze a tal punto da farti capire che solo tu che sei umano puoi essere così stupido da guardare un film così stupido, mentre loro, macchine umane, sicuramente non lo avrebbero mai fatto. 

Poi è chiaro, ci sono umani e casi umani. Agli anglosassoni, umani, per farsi fregare è sufficiente la locandina del film che ritrae lui, ma con la scritta “lei”, tanto per non creare fraintendimenti. Ai casi umani italiani, invece, serve qualche informazione in più: lui (che si vede) e “lei” (che si sente), OK.

Ma un po’ di gnocca? Insomma, qualcuna magari non intelligente come “lei”, ma che almeno te la puoi guardare? C’è? C’è.

Stupidi sì, miopi no.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter