di Ilaria Mazzacane| FocusMéditerranée
Luca Tincalla vive ad Istanbul da ormai sette anni. Originario di Roma, classe 1974, è giornalista e scrittore e in Turchia insegna anche italiano.
Lo abbiamo incontrato a Milano, alla presentazione del suo ultimo libro, Testimone a Gezi Park, un racconto crudo e realistico di chi ha conosciuto da vicino la rivolta che ha investito la Turchia tra maggio e settembre del 2013.
Il volume in pochi giorni ha registrato oltre 20mila download. Ma in Italia nessun editore vuole pubblicarlo. Perché? Ce lo racconta l’autore.
FocusMéditerranée ha selezionato per voi alcuni estratti del libro e, a partire da settimana prossima, ve li proporrà.
Tu sei un testimone. Hai partecipato attivamente alle proteste di Piazza Taksim e Gezi Park in particolare. Qual è stata la molla che ti ha fatto ritenere “doveroso” intervenire?
Il fatto che, altrimenti, nessuno ne avrebbe parlato. Molte persone si sono occupate di questa rivolta, ma senza sufficiente attenzione su quanto stava accadendo realmente. Le proteste di fine maggio, infatti, sono arrivate in Italia a giugno e in maniera incompleta. Stando, per esempio, ai media mainstream turchi, non stava succedendo assolutamente nulla. La prima volta che sono andato a Gezi Park non mi sono reso conto precisamente di quello che stava avvenendo. Poi, però, abbiamo subito l’attacco con i lacrimogeni e da lì è iniziato un processo di consapevolezza graduale, che è avvenuto per tutto il popolo turco, e quindi anche per me. Così abbiamo cominciato a partecipare.
La Turchia sta vivendo uno straordinario momento di espansione economica. Al benessere economico, però, non si accompagna il benessere sociale. Quali sono dunque le ragioni delle proteste contro il governo?
Purtroppo il benessere economico è spesso confuso con quello sociale, così come il capitale sociale lo è con quello economico. Nel 2001 in Turchia c’è stata una grossa crisi finanziaria e i tre mandati dell’AKPhanno sancito il predominio di il primo ministro Erdoğan. Nell’arco di questi dodici anni l’AKP ha fatto moltissimo dal punto di vista economico per il Paese, tant’è che nonostante la crisi mondiale, la Turchia ha continuato a produrre. In maniera del tutto inaspettata, però, proprio questa ricchezza diffusa ha portato i nuovi ricchi a richiedere una ricchezza che fosse anche sociale. Ora che i salari medi sono aumentati, infatti, non è aumentato quel benessere fatto di parchi, di teatri e cultura, di cui si inizia a sentire un forte bisogno. Le persone, insomma, hanno cominciato a chiedersi come godere dei propri guadagni accumulati. Sono gli stessi figli di questi nuovi ricchi che, insieme, chiedono più diritti e riforme sociali.
Istanbul, Turchia. Ph. Charles Emir Richards
A proposito di “figli”… tu parli anche di quanto è successo all’Università del Medio Oriente. Puoi dirci qualcosa in più?
Premetto che questa protesta si è sviluppata nel cuore di Ankara ed io, che abito a Istanbul, non ho potuto viverla in prima persona. Posso dire, quindi, quanto ho letto tramite i media mainstream e quelli alternativi. Il governo sta costruendo un’autostrada che passa esattamente nel campus universitario. Personalmente, non sono contrario all’autostrada a priori, esattamente come non sono contrario al terzo ponte o a molte altre opere che hanno preso piede in Turchia. Però sono avverso a progetti portati avanti senza un briciolo di rispetto per l’ambiente circostante: che senso ha andare a falciare degli alberi in mezzo a un’università, quando quest’autostrada potrebbe tranquillamente passare a lato della struttura? Non scordiamo, a tal proposito, che per il famoso terzo ponte di Istanbul, la cui lavorazione è iniziata il 29 maggio scorso, è stata “segata” una parte di foresta per errore! Gli studenti di questa università di Ankara, insomma, sono scesi non in piazza, bensì nel loro parco per difenderlo da quanto stava avvenendo. Ma la loro protesta è stata respinta proprio come quella che ha investito Gezi Park, come se non fosse possibile manifestare in maniera pacifica.
Largo spazio, nel tuo racconto, trovano le donne, dalla storia di Pippa Bacca a tutte quelle scese in piazza “con o senza velo”. Quali sono i motivi alla base di una partecipazione così massiccia?
Questa è la prima volta che in Turchia le donne partecipano in maniera così imponente. Credo che si tratti di un vero e proprio risveglio di chi non intende più sottostare a certe regole, come ad esempio al messaggio di Erdoğan, il quale ricorda quotidianamente che le donne devono mettere al mondo da un minimo di tre a un massimo di cinque infanti. C’è un’invasione non indifferente nella loro vita privata e penso che questa sia stata una delle molle che le ha portate in piazza. Ceyda Sungar, la “donna vestita di rosso”, una delle prime icone della rivolta turca, era semplicemente una passante curiosa di sapere di chi fossero le tende a Gezi Park e come mai si trovassero lì. Ma si è posta le domande nel momento sbagliato, perché in quel preciso istante la polizia è intervenuta per sgomberare. Così è iniziato Gezi Park e proprio la violenza spropositata perpetrata dalla polizia si è rivelata un boomerang fortissimo che ha portato in piazza almeno sette milioni di persone soltanto nelle prime sette settimane. Credo che ci sia una nuova coscienza sociale, insomma, che coinvolge non soltanto le donne, bensì anche giovani, vecchi, musulmani anticapitalisti, sciiti, sunniti, aleviti, curdi, armeni, …
In Occidente, i mass media tradizionali hanno erroneamente bollato ciò che stava accadendo in Turchia come “la Primavera araba turca”. E’ un paragone azzardato? Perchè non condividi questa definizione?
Perché innanzitutto i turchi non sono arabi; e questo è già un grosso errore in cui spesso cade la maggior parte dell’informazione che proviene da Occidente. E poi perché queste proteste nascono in maniera opposta: in alcuni Paesi c’è recessione, mentre in Turchia siamo in pieno boom economico. Credo che questa liaison sia un po’ pericolosa. E’ chiaro che sussistano delle analogie, ma a mio avviso valgono di più le differenze.
A proposito di mass media, quanto avvenuto in Turchia, e prima ancora in Tunisia ed Egitto, ci ha insegnato che la protesta passa soprattutto per i social, lo strumento che è ormai in grado di aggirare qualsivoglia censura, diretta o indiretta. Che uso ne hai fatto tu per riportare la cronaca di quanto accadeva intorno a te?
Avrei voluto volentieri fare a meno dei social network. Soprattutto in Egitto è accaduto che, grazie al lavoro di alcuni blogger, siamo riusciti a conoscere cose che, altrimenti, sarebbero rimaste ignote. Lo stesso è avvenuto per le vicende siriane, per esempio attraverso l’opera di Shady Hamadi, che ha poi scritto “La felicità araba”. Si narrano, insomma, queste rivolte in maniera diretta e senza filtri. Moralmente sono stato costretto a riportare quanto stava accadendo, perché in quei giorni leggevo definizioni assurde circa la rivolta turca: qualcuno l’ha chiamata “rivoluzione della birra”, altri “la rivoluzione romantica dedicata al bacio”, a fronte del divieto di baciarsi in metropolitana … Per cercare di rendere giustizia a quanto stava avvenendo realmente, ho creduto fosse opportuno non solo partecipare, ma anche descrivere quello che vedevo e poi diffonderlo. Ho dunque pubblicizzato gli articoli realizzati per blog e testate online attraverso Twitter, al fine di renderli noti al maggior numero possibile di lettori. Piuttosto che utilizzare diversi canali e male, ho preferito dedicarmi ad uno solo, cercando di farlo bene.
Nel libro citi due momenti culturalmente importanti, seppure in modo differente: la realizzazione di una biblioteca open-air in pieno parco, organizzata dalla Piattaforma degli Editori Turchi e la Biennale di Istanbul (coraggiosamente dedicata al tema della rivolta, da quella egiziana a quella turca), che distribuiva gratuitamente libri ai manifestanti. Quale ruolo possono giocare iniziative come questa?
Un ruolo fondamentale. Gli editori turchi si sono riuniti e hanno deciso di dare gratuitamente i libri sulla base delle risposte che ricevevano dai lettori a domande sui loro gusti personali. E in cambio non veniva chiesto nulla, a meno che l’acquirente non avesse voglia di fare una donazione. La Biennale, invece, è stata decisa molto prima di settembre, ottobre. Non ci si aspettava certo che esponesse materiale su quanto accaduto a Gezi Park durante il periodo compreso tra fine maggio e inizio giugno! Nel complesso è stata davvero molto interessante, anche perché ci ha permesso di vedere le resistenze della Bulgaria, dell’Egitto e della Tunisia. Ma mi ha colpito principalmente il fatto che sia stata permessa. Anche se va detto che il gruppo industriale Koç, uno dei maggiori in Turchia, nel momento in cui ha finanziato questo progetto ha dovuto subire di ritorno le angherie del governo, che ha intensificato i controlli sulle sue aziende. Dove per “controllo” intendo quasi l’attesa di un motivo qualsiasi per scatenare uno scandalo.
Qual è lo scenario attuale in Turchia? Quali le richieste dei manifestanti e le risposte del governo, se ci sono.
Questo tira e molla va avanti ormai da parecchio tempo e generalmente il governo ignora le richieste dei manifestanti. Ricordiamo che ben il 49 per cento dei turchi, praticamente la metà della popolazione, alle ultime elezioni ha votato per Erdoğan e che ci si sta preparando alle amministrative del 2014. Vedremo se l’AKP sarà confermato per la quarta volta o se qualche altra forza, come ad esempio il neonato HDP (Peoples’ Democratic Party), potrà arrivare alla vittoria. A mio avviso no, perchè non va dimenticato che, per quanto siano scese in piazza molte persone, moltissime altre non l’hanno fatto. La Turchia conta 70 milioni di abitanti, mentre i manifestanti sono stati circa 10. La questione sta tutta nell’indifferenza delle persone che non hanno partecipato.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro, una volta rientrato in Turchia?
Spero di dare attenzione al romanzo. In Italia ho fatto un breve tour di presentazioni, che ha toccato Roma, Milano e Firenze. Quello che cercherò di fare in Turchia è dare al mio testo un destino migliore rispetto a quello che ha incontrato qui, dove da parte degli editori non ho ricevuto attenzione. Affinché questa protesta non sia finita – non sia bollata come “romantica” – e la gente non vada a leggere racconti di persone che non hanno partecipato effettivamente a quanto successo in Turchia, ho deciso di andare avanti fino alla fine. Esattamente come ho partecipato e mi sono esposto fino alla fine. Mi sono preso la mia responsabilità e la soluzione che ho trovato per dare spazio al mio libro, prima di autoprodurlo, è stata usare il web. In Turchia, quindi, proporrò il lavoro agli editori perchè lo pubblichino. E se questo non sarà possibile, farò la stessa cosa che ho già fatto in Italia!
Info: scarica il libro di Luca Tincalla