Il primo sintomo di un atto dissacratorio è la sapienza dei segni. Nella messinscena ampiamente chiacchierata di Natale in casa Cupiello di Antonio Latella – a trent’anni dalla morte di Eduardo, dunque in piena atmosfera rievocativa – il riconoscimento postmoderno è dichiarato dall’incipit in proscenio della compagnia. Una schiera nerastra e bendata su cui cala, come una simbolica mannaia pronta a fare a pezzi la tradizione, un’enorme stella cometa di un giallo vivido di fiori in composizione scenografica, in netta opposizione con la postura fissa e dark dei protagonisti a dar voce a turno alla propria didascalia di personaggio o di descrizione corale.
L’atto del levarsi la benda è il primo di una serie di smascheramenti che Latella opera con criterio da un lato esecrabile, per una fetta consistente di pubblico benpensante e, dall’altro, esaltante per quella nutrita critica pronta al plauso non appena si fa poltiglia dei padri. Ogni sequenza drammaturgica è così incarnata fin negli accenti da Luca Cupiello, capocomico che muove la penna di Eduardo e vibra dei colpi di riscrittura indossando, unico tra gli altri, una giacca bianca e reggendo un bastone d’anzianità parimenti simbolico.
Francesco Manetti ne è l’interprete abile e volutamente alieno a qualsiasi coloritura partenopea, primus inter pares di un presepe umano, dove si avvicendano uno dopo l’altro i profili di una grotta piena di vizi in cui ciascuno si circonda di un alone tragico reggendo un animale di pezza assegnatogli per corrispondenza figurata. Così, l’altro volto del copione di Eduardo – Concetta e la sua fatica a reggere il carico della famiglia con l’ossessione di Lucarié per il presepe – è una divagazione forzata dalla macchia di Tommasino (un più che eccellente Lino Musella), il figlio maschio che ruba per rivendere o dalla vergogna per le smanie della figlia Ninuccia per l’amante forestiero.
Il volto della madre-Madonna di famiglia si contrae per assumere allora su di sé, grazie alla bravura d’altri tempi di Monica Piseddu, il macigno dell’intero dramma famigliare. Ecco che ricompare da fondo scena tirando un carretto dai pannelli trasparenti in cui, come una bestia in gabbia, Luca segue dall’interno tutte le tracce della storia scrivendo e assistendo agli scontri o scontrandosi egli stesso con il fratello Pasqualino, un rassegnato e finemente ironico Michelangelo Dalisi.
Alle spalle degli eventi e delle didascalie accentate, si sente in loop il registrato di Eduardo-Lucarié mentre dichiara di ricominciare tutto daccapo, una volta distrutto il presepe per colpa di Ninuccia. Una battuta nodale per intendere una tessitura registica che non abbatte con formalismo sadico o vacuamente dadaista il nume tutelare, ma lo cuoce lentamente seminando digressioni pittoriche e revisioni postmoderne. Prova ne è un secondo atto che ritrova Concetta come Vergine da Pietà rinascimentale e sacra rappresentazione attorno al bambinello Lucarié, nudo nella mangiatoia raggiunta poi – qui davvero senza giustificazioni sufficienti in termini di abusi economici – da animali viventi di fattoria.
Se dunque il fastidio può incorrere come reazione all’esibizionismo di un copione fatto rivivere per contrasti di convenzioni drammatiche e simulazione di risate didascaliche, non se ne può negare la composizione semantica fitta e colta: il carretto riempito con gli animali di pezza come un pranzo delle beffe, la discesa dal graticcio del portiere Raffaele come angelo ambasciatore – un misuratissimo Leandro Amato, pur costretto a lungaggini evitabili nonché assimilabili al troppo virtuosistico dottore che regge una scimmia per tutta la messinscena e abbozza arie liriche sulla calunnia – e, da ultimo, la solitudine dei buoni, che Latella non perde mai di vista proprio per mano dello stesso maestro riletto e stravolto.
Non si tratta di connotazioni fini a se stesse, se non appunto per estremi del gusto, ma di disegno complesso delle umanità pronte a scavalcarsi, a fare ressa, ma anche a riunirsi quando serve. Orgoglio di un figlio, disposto a non ammettere mai la bellezza del presepe, e veglia del padre che ne muore senza saper vedere a sua volta. Proporzione pressoché esatta già nell’estetica dei rapporti tra regista e modello di ispirazione.
Le venature di una riscrittura o adattamento sono fili di marionetta che solo la conoscenza apre alla lucidità ricreativa: la massima di un rispetto nel tradimento o, viceversa, l’intaglio che abbraccia percorsi manifesti anche in termini di sentire scenico. Quest’ultima via procede da una scrittura immaginifica e alta qual è quella di Giuseppe Patroni Griffi in Scende giù per Toledo, la cui letterarietà abita con efficacia la drammaturgia scritta e interpretata da Arturo Cirillo. Si attraversa infatti con equilibrio saggio e vivace la scissione inevitabile tra un ritratto letterario esposto dal narratore onnisciente, che con intelligenza Cirillo pronuncia in voce off, e le scene vissute affidate all’unico attore nei panni della protagonista transessuale Rosalinda Sprint.
Tornano le aspirazioni a fare da collante con le fisicità sgranate di Eduardo: Rosalinda è definita di carta gracile mentre osserva il mare che si stacca dagli scogli e ricorda o si avvicenda negli incontri con Marlene Dietrich – tenutaria di un appartamento suddiviso in stanze da affittare alle “irregolari” – con l’amato e violento Gaetano o con la baronessa ai margini del marciapiede e di quel ventre napoletano che è tutt’uno con il soffocamento del giudizio e della povertà.
L’anima persa di Rosalinda non rinuncia al fiorame dell’unica stanza da poveraccia a Montecalvario, spera nella buona sorte e nelle prospettive sconosciute di una Londra lontana. Soffre la memoria cruenta del padre e della sua arma puntata contro un corpo senza demarcazioni ortodosse, vive del vento e delle cure ai dettagli che non ottengono mai l’esito che vorrebbe, né nel soprabito cucito da un sarto pigro, né nella tinta ai capelli.
La scansione tumultuosa e lirica del racconto isolato e vario prende carne di cimento drammatico grazie a un attore che ne sa muovere fino in fondo le voluttà e frustrazioni. Il corpo esile di Cirillo, la mano che segue da un braccio lungo e come un ventaglio getta un semicerchio d’acqua che brilla tra piccole pareti di tappezzeria carica: si compie il viaggio di un’identità fusa con gli umori sconvolti della città tanto vocata all’appartenenza quanto alle corna, una volta abbandonata.
Eppure, la sensazione che scorre tra i rimpianti e lo stile superbo di Patroni Griffi è che tutto disegni una visione in grado di scomparire una volta improntata. Effervescenza e vanità dell’essere nel dolore proprio e altrui, confine labile del genere umano al suo impatto con la riscossa: «La notte è calata. Vuoto e silenzio. Rosalinda Sprint sul molo, unica silhouette umana, si siede sulla valigia abbandonata poco distante, e resta con quei suoi occhi che bruciano malinconici, a fissare il buio. Forse pensa. Se n’è capace ancora».
Fino al 1 gennaio 2015 – Teatro Argentina, Roma
Natale in casa Cupiello
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
Luca Cupiello, Francesco Manetti
Concetta, sua moglie, Monica Piseddu
Tommasino, loro figlio, detto Nennillo, Lino Musella
Ninuccia, la figlia, Valentina Vacca
Nicola, suo marito, Francesco Villano
Pasqualino, fratello di Luca, Michelangelo Dalisi
Raffaele, portiere, Leandro Amato
Vittorio Elia, Giuseppe Lanino
Il dottore, Maurizio Rippa
Carmela, Annibale Pavone
Rita, Emilio Vacca
Maria, Alessandra Borgia
Drammaturga del progetto Linda Dalisi
Scene Simone Mannino e Simona D’Amico
Costumi Fabio Sonnino
Musiche Franco Visioli
Luci Simone De Angelis
Assistenti alla regia Brunella Giolivo, Michele Mele
Assistente volontaria Irene Di Lelio
Visto al Teatro Elfo Puccini, Milano
Scende giù per Toledo
di Giuseppe Patroni Griffi
regia di Arturo Cirillo
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
musiche originali Francesco De Melis
con Arturo Cirillo
luci Mauro Marasà
produzione MARCHE TEATRO -Teatro Stabile Pubblico e Fondazione Napoli Teatro Festival