Il pretesto più misero è l’anticamera del possesso. O, almeno, questa è la sensazione che si insinua nell’osservare una scena che non tanto e non solo riproduce dinamiche ossessive di coppia, divenute tragicamente ordinarie, ma mina la certezza d’esserne immuni. Con Polvere, la sua più recente scrittura drammaturgica, Saverio La Ruina adatta a una stanza comune le opinioni in crescendo d’insulti e affermazioni barbariche di superiorità di un uomo verso una donna. Nulla è lasciato al caso o alla cronaca scontata, perché il linguaggio in uso si serve di una mitraglia precisa di domande inquisitorie e costrizioni al cambiamento che il nuovo compagno, giunto dopo una violenza e molte solitudini, impone alla compagna inerme che gli si affida.
Dalla contestazione di un quadro appeso, presunto istigatore all’erotismo, al pericoloso taglio delle sopracciglia provocanti, fino al racconto reiterato nei minimi dettagli degli incontri e delle abitudini di lei, La Ruina affronta l’incastro a due come un ring dove la colpa inesistente e il non detto sono fantasmi che annullano voce e identità femminili. Gli strumenti verbali sono dunque l’arma scenica primaria per accelerare in maniera sorda e morbosa un’oppressione sempre più insostenibile, che solo all’ultimo si carica di atti violenti. Fino allora, sono il descrivere e ripetere le medesime esperienze di vissuto che fanno del palcoscenico l’arena ambigua di una dimostrazione dolente: il doppio insito nella teatralità che si osserva riflette il male sotteso a un’asfissia di telefonate fiume e interrogatori domestici. Nessuno si salva, la polvere aumenta e toglie il respiro, come polvere è quanto può restare dell’umano una volta annientato con l’umiliazione che gonfia il petto virile.
Per una volta La Ruina, smessi i panni delle femminilità violate o di chi, come nel monologo Italianesi, ha racchiuso in sé il viaggio e l’alienazione di una guerra, indossa quelli del persecutore insospettabile in un corpo a corpo dai toni bassi perché non sia unicamente di fisicità bieca il raggiro asfittico di una relazione violenta. L’istinto è di prendere respiro dopo ogni battuta, di allontanarsene e cercare una tesi che non c’è, se non nel mezzo di quell’ascolto collettivo che dovrebbe provare a salvare le proprie vittime. Donne che La Ruina continua a riconoscere e far rivivere dal suo primo La borto, riproposto accanto a Dissonorata nella dimensione dedicata di una personale al Teatro Elfo Puccini di Milano.
Per entrambi i monologhi vige la regola dell’essenziale invisibile: una sedia, un musicista e degli abiti corredati di una partitura gestuale e vocale che il ricorso al dialetto calabrese esalta in ferma direzione di autenticità e arcaismo innocente. La disgrazia di una figlia femmina e il rigurgito famigliare, le braccia sempre coperte anche sotto un caldo atroce, il capo basso a contare le pietre e l’innamoramento cieco quando tra il dovere di pastorella e la durezza antica del padre padrone si fa largo il giovane più bello del paese. Pasqualina, voce e storia di Dissonorata, non sa che è un rischio accogliere ogni volere dell’amato perché al concepimento di un figlio indesiderato seguiranno la fuga del mascalzone e la punizione della vergogna.
Così, il rogo delle carni di Pasqualina è l’ultimo grido, ma anche l’ultimo grazie di un personaggio cui La Ruina sa affidare la riconoscenza di un figlio nato in una grotta lo stesso giorno di Cristo. Laggiù la visione docile nutre il buio orrendo della barbarie di quelli dello stesso sangue, un dialogo immaginario che fa da aggancio con il volto di Vittoria, anima di La borto. L’amore è ancora una volta cieco e assoluto, ma preceduto da un matrimonio di convenienza che svende, o meglio, annulla la facoltà di decidere. Gli occhi del marito mostro paiono evocare sincera bontà d’animo, ma si trasformano presto in disinteresse e gravidanze a rotazione. Un male comune tra le giovani e non più giovani spose del paese, suddiviso in posti di blocco armati di uomini scrutatori, giudici dai vanti spacconi.
Vittoria non ha altra scelta che pregare tutti i santi, adottare espedienti di qualsiasi natura per non accrescere una stirpe tribolata, ma nulla è efficace come si aspetterebbe. E i figli sono sette dopo un matrimonio celebrato a tredici anni. Resta lo spettro della “Medichessa” cui, tra ferri luridi che hanno seminato morte e infezioni, va affidato l’ultimo margine tra vita e morte. In questa verità inascoltabile c’è la promessa di un destino che si ripeterà con una delle figlie di Vittoria: per lei la madre si sdebiterà e non ci saranno streghe a guastarle il ventre.
Un ultimo sguardo va infine a quel Gesù con cui lo scambio che vaneggia è fitto e quasi umoristico, per riabilitarsi e segnare anche con ciò che resta della resistenza di un corpicino intirizzito e fiacco il primo vero aborto: un abuso concesso alla tradizione patriarcale.
SAVERIO LA RUINA
20 – 25 gennaio
POLVERE
Dialogo tra uomo e donna
27 – 29 gennaio
DISSONORATA
Un delitto d’onore in Calabria
30 gennaio – 1 febbraio
LA BORTO
Visti presso Teatro Elfo Puccini – Milano