E’ stata la prima donna maghrebina ammessa all’Ecole Normale Supérieure a Sèvres e la prima autrice maghrebina eletta a far parte, nel 2006, all‘Académie française. Nata nel 1936 a Cherchell, una piccola città costiera distante circa 80 km da Algeri, da una benestante famiglia la cui madre era una fiera discendente di una famiglia aristocratica e marabutica berbera, Assia Djebar – all’anagrafe era Fatima Zohra Imalayène – è stata una autrice di estrema rilevanza nel panorama degli intellettuali maghrebini e francesi.
Autrice di poesie, teatro, romanzi e saggi, e anche cineasta, Assia Djebar si è spenta in un ospedale di Parigi lo scorso 6 febbraio, all’età di 78 anni, dopo una lunga malattia. Nella settimana dedicata alla Festa della Donna, è la sua figura che voglio ricordare.
La sua opera è dedicata in gran parte all’emancipazione della donna, all’Algeria vista attraverso la violenza fondamentalista e alle lotte per l’indipendenza. Mentre nel suo orizzonte creativo, numerose questioni si sono accavallate: quale lingua scegliere per scrivere, ma anche, ad un certo punto, in quali linguaggi, oltre alla scrittura, esprimersi.
Djebar scriveva in francese, la lingua in cui aveva ricevuto l’istruzione superiore in Francia, e per questo fu anche criticata. Pubblico’ il suo primo romanzo nel 1957, dal titolo La Soif presso l’editore Julliard, all’età di soli 21 anni, usando per la prima volta lo pseudonimo di Assia Djebar. Non vinse mai il Nobel per la Letteratura anche se il suo nome fu fatto diverse volte – ha scritto Le Figaro. Ma ha vinto numerosi altri premi prestigiosi come scrittrice (per l’intero corpo del suo lavoro ha ricevuto il Premio Internazionale Neustadt 1996 per la letteratura). Tra gli anni ‘60 e ‘70 insegno’ a Rabat, e ad Algeri dove prima ricopri’ la cattedra di Storia moderna e contemporanea dell’Africa del Nord e poi insegno’ Letteratura francese e cinema. Con al recludescenza del fondamentalismo islamico in Algeria, negli anni ‘80 si stabili’ di nuovo nella regione parigina (e sposo in un secondo matrimonio con il poeta e scrittore algerino Malek Alloula). Ha insegnato anche alla New York University. Tra i suoi romanzi ricordo la sua prima opera tradotta in Italia, “Donne d’Algeri nei loro appartamenti” (Giunti Editore, 1988), mentre un bel saggio sul suo lavoro è senz’altro “Voci e Silenzi Postcoloniali. Frantz Fanon, Assia Djebar e noi” di Renate Siebert (Carocci editore, 2012), un volume che tra l’altro fa riflettere sul presente di un’Europa sempre piu’ fortezza xenofoba.
Djebar ha vinto premi anche come cineasta, attività alla quale si è dedicata a cavallo tra gli anni ‘70 ed ‘80 quando insegnava cinema ad Algeri. E’ stata la prima donna regista nella cinematografia algerina, sviluppando nuovi progetti che si interrogavano sulle diverse possibilità del mezzo. Un impegno che le ha fatto vincere il Premio della critica internazionale alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezianel 1979 con il lungometraggio La Nouba des femmes du mont Chenoua (1977), una fiction prodotta per la televisione algerina, e il Premio speciale per il miglior film storico nel 1982 al Festival del cinema di Berlino con il lungometraggio La Zerda ou les chants de l’oubli (1982).Peccato che i suoi film siano difficilmente reperibili. Del cinema di questa intellettuale algerina parlo con Vanessa Lanari*, da due anni co-direttrice artistica del Festival del Cinema Africano di Verona, il piu’ vecchio d’Europa.
Parliamo di La Zerda ou les chants de l’oubli (1982). Intorno a quale tema indaga questo lungometraggio?
La Zerda è un documentario che indaga la difficile questione dello sguardo e della costruzione della Storia africana, avendo avuto come unico riferimento il punto di vista occidentale. Dalle rappresentazioni esotizzanti, fornite alla fine del diciannovesimo secolo dalla pittura europea, alle cronache di viaggio, fino ad arrivare ai documentari “etnografici” di cineasti europei, la visione europea ha costruito e fornito un’immagine falsata dei popoli africani. Il lavoro di Assia in La Zerda, a cui in seguito si sono ispirati un discreto gruppo di artisti e cineasti africani, è consistito nell’aver rovesciato la prospettiva dello sguardo colonizzatore, utilizzandone però gli stessi strumenti, cioè i filmati d’epoca delle attualità cinematografiche “Gaumont-Pathé”, prodotte dai francesi nel trentennio 1912-1942, che documentavano le usanze e le cerimonie delle popolazioni maghrebine.
Lei ha scritto che anche la Storia è protagonista in questo film di Djebar. In che senso?
L’intera produzione letteraria e cinematografica di Assia Djebar è attraversata dall’esigenza di raccontare la storia usando una lente nuova e ponendosi come obiettivo proprio la de-costruzione e il superamento della “versione” ufficialmente riconosciuta nel mondo occidentale.
Anche nel documentario La Zerda ou les chants de l’oubli, la storia è protagonista, poiché Djebar ha denunciato il meccanismo perverso e strategico che sottendeva alla realizzazione di immagini, provenienti da sguardi esterni, usate con la pretesa di imporre un unico punto di vista o di raccontare la storia di un paese.
Inoltre è necessario sottolineare l’assoluta importanza del lavoro di Assia Djebar, per la quale il rovesciamento della prospettiva storica si caricava di un’ulteriore componente sovversiva, essendosi principalmente appoggiata, nella ri-scrittura della storia del proprio paese, alla memoria e al punto di vista femminile.
Nell’ultimo romanzo, La donna senza sepoltura (2002) Djebar torna nel suo paese natale per dare voce a Zoulikha Oudai, eroina dell’indipendenza algerina, scomparsa nel 1957, dopo essere stata arrestata e torturata dall’esercito francese, alla quale l’autrice aveva dedicato anche il suo primo lungometraggio, La Nouba des femmes du Mont Chenoua. Djebar ristabilisce con la sua scrittura il giusto ordine degli eventi storici, e non solo per denunciare l’occupazione coloniale, ma anche per restituire dignità alle figure femminili, troppo spesso dimenticate dalla stessa società algerina.
La Zerda è stato definito un film storico-musicale. Quali sono le novità dal punto di vista della narrativa filmica?
Il documentario è costruito sulla contrapposizione continua tra parte sonora e visiva, necessaria all’autrice per smascherare l’immaginario creato dalla retorica coloniale e dareun nuovo significato alle immagini, consegnate alla storia dagli europei. Accostando infatti al materiale d’archivio dei francesi, una moltitudine di voci, canti e musiche di uomini e donne algerine, La Zerda rivela e restituisce ciò che è stato storicamente occultato, ovvero la presenza dell’Altro. In questo senso si può definire il film come storico e musicale, poiché il suono delle voci, assente dai libri di storia, ha potuto mostrare una diversa verità storica, o comunque aggiungere un’ulteriore fonte alla scrittura della Storia.
Quale posto ha occupato la produzione cinematografica nell’attività di questa intellettuale algerina?
Ad un certo punto della sua carriera, l’autrice ha sentito l’esigenza di rivolgersi al cinema (senza voler lasciare la letteratura), poiché secondo lei “le donne della sua terra erano state escluse dalla vita pubblica e dalla scrittura della storia” ed era necessario restituire loro la voce. Si reca quindi nel 1976 sul monte Chenoua, culla della sua origine, per intervistare le nonne, madri, sorelle e tutti le figure femminili, comprese le eroine della guerra di liberazione, rimaste per troppo tempo nell’ombra. La settima arte le offrirà l’opportunità di “ri-imparare a guardare per poter trasmettere”. Sostituendo alle parole, che in quel periodo faticava a trovare, immagini e suoni continuerà la sua opera sotto l’occhio indagatore delle telecamere. Il cinema come immagine-suono, appunto come lo definiva Assia, per denunciare il patriarcato, la violenza sulle donne e la colonizzazione selvaggia.
Una regista maghrebina contemporanea di riferimento?
Trovo particolarmente interessante il lavoro di una regista tunisina, Raja Amari, che si è fatta conoscere in Italia con Satin Rouge. Nelle sue opere, corti e lungometraggi, Raja Amari mette in scena personaggi femminili, alienati e trasgressivi, almeno secondo il giudizio della società, in cerca della propria identità e libertà. Nel suo secondo lungometraggio, Buried secrets, narra le vicende di tre donne, costrette a vivere negli ambienti sotterranei di una casa signorile in Tunisia, in parte perché emarginate dalla società e rimaste prive di uomini in famiglia, e in parte volontariamente esiliate. La regista delinea, ricorrendo al format del thriller psicologico, dei ritratti al femminile straordinari e crudeli, rivelando contraddizioni e caratteristiche, che seppur con esiti diversi, ricordano molte figure femminili di Djebar.
*Vanessa Lanari si occupa di cinema e letteratura africana francofona. Ha collaborato con la rivista Africultures, fondazione lettera27 e numerose altre riviste e piattaforme sul cinema africano, in Italia. Curatrice del libro Camera Africa, Classici, noir e Nollywood e la Nuova Generazione del cinema delle Afriche, assieme al Festival del cinema africano di Verona, di cui è diventata co-direttore artistico dal 2013.