Leggere il mondoCittà fallite

Le nostre città stanno fallendo, i numeri ci dicono questo. Paolo Berdini, autore del nuovo “Le Città Fallite” edito da Donzelli, ci prova a spiegare anche il perché. Per Berdini la colpa è da ide...

Le nostre città stanno fallendo, i numeri ci dicono questo. Paolo Berdini, autore del nuovo “Le Città Fallite” edito da Donzelli, ci prova a spiegare anche il perché. Per Berdini la colpa è da identificarsi con l’avanzata della speculazione neoliberista che fa scempio dei principi puri dell’urbanistica – il cui compito sarebbe quello di favorire lo sviluppo di habitat comunitari e solidaristici – e dei dettami costituzionali secondo i quali l’utilità pubblica deve essere tutelata prima di ogni interesse privato.

In 150 pagine, Paolo Berdini riallaccia i fili della storia riguardante la scomparsa della “città pubblica” che ci avevano donato, sulle orme di tessuti urbani pre-esistenti, i governanti liberali dei primi anni dell’unità d’Italia. Vengono citati gli esempi virtuosi della famiglia Crespi, che aveva una fabbrica di tessuti e che ebbe cura di creare un ambiente comunitario e sereno per i lavoratori, dell’illuminato sindaco fiorentino La Pira il quale, negli anni Cinquanta, requisì le abitazioni abbandonate per darle ai senzatetto, e, ovviamente, quello di Adriano Olivetti che a Ivrea tanto si dedicò per la creazione di un vero modo comunitario di vivere.

Per l’autore, le noti dolenti cominciano con l’avvento del “pensiero unico neoliberista” che trasforma la “città pubblica” in puro “conto economico”,  avviando il processo di cementificazione del territorio e la dispersione di capitali in grandi opera pubbliche, giudicate inutili, che strozzano il welfare urbano: da un lato, la pressione della finanza speculativa, spesso in accordo con le istituzioni, dall’altro, la mancanza di risorse per garantire il funzionamento della città stessa. Si imporrebbe, quindi, una logica di rapina che distrugge le conquiste sociali, favorisce i grandi centri commerciali, porta al fallimento, specie tramite le cosiddette “liberalizzazioni”, le piccole imprese, che hanno costituito il nerbo della nostra economia.

I tempi bui hanno inizio con il primo condono edilizio craxiano del 1985, cui seguiranno i due condoni del governo Berlusconi, che apre la stagione delle “deroghe urbanistiche”. Gravi responsabilità vengono assegnate alla manovra Bassanini, che non inserisce nel Codice degli appalti del 2001 un emendamento per mantenere il vincolo, posto dalla legge Bucalossi n. 10 del 1977, di destinazione degli oneri urbanistici per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria: da allora essi possono essere utilizzati anche per le spese correnti. In tal modo speculatori e amministratori comunali si troverebbero sullo stesso piano di interessi; per l’autore, e per Paolo Maddalena che introduce il saggio, “entrambi convergono sulla convenienza di distruggere il territorio per ottenere danaro”. L’accordo fra costruttori e amministratori diventa una regola. Sempre nello stesso anno un altro duro colpo è inferto con la “Legge obiettivo”, che Berlusconi illustra su una lavagna in una famosa apparizione televisiva.
Tuttavia, è la “rendita fondiaria”, cioè l’urbanizzazione dei terreni agricoli, che aguzza l’ingegno degli speculatori, e Berlusconi va loro incontro con il “Piano casa”, che fa nascere una gara tra le Regioni per concedere ai costruttori il massimo di guadagni possibili, soprattutto in termini di cambio di destinazione d’uso e di aumento delle cubature.
Tocca poi al governo Monti che – sostiene Berdini – segue in pieno “le prescrizioni” dell’alta finanza, ormai a capo delle istituzioni economiche europee, ripristinando l’imposta sulla casa e tagliando ulteriormente i servizi sociali. Si giunge, infine, all’attualità dello “Sblocca Italia” di Matteo Renzi, che farebbe prevalere l’interesse alla costruzione delle “grandi opere” sulla tutela del paesaggio, dei beni artistici e storici, della salute e dell’incolumità pubblica.

La tesi di Berdini è naturalmente oppugnabile, ma indiscutibili restano i numeri. Roma Capitale ha accumulato 22 miliardi di euro di deficit ed è una città praticamente fallita. Alessandria è stata dichiarata in default per un debito di 200 milioni. Parma ha un buco di bilancio di 850 milioni. Napoli è in stato di pre-dissesto. L’Aquila è ancora un cumulo di macerie, perché la ricostruzione non ha finanziamenti adeguati, mentre sono 180 i comuni italiani commissariati per fallimento economico.

Un capitolo a parte meriterebbe Torino – solo “sfiorata”dal saggio di Berdini – che, illusa dall’ubriacatura olimpica del 2006, si ritrova oggi inghiottita dal buco formato dai tre miliardi di debito e dall’assenza di prospettive sicure. Già qualche anno fa, una ricerca universitaria condotta dai professori Silvano Belligni e Stefania Ravazzi, e pubblicata da Il Mulino sotto il titolo “La Politica e La Città”, aveva evidenziato come la città “non più della Fiat” “è più che mai in bilico su un pericoloso crinale, tuttora sospesa fra decadenza e rinascita, ancora alla ricerca di un equilibrio produttivo e sociale che non riesce ad instaurarsi”, con l’indebitamento olimpico che resta una pesante ipoteca.
L’eredità e il presente degli ultimi venticinque anni della politica torinese sono ancor più duramente criticati dal collettivo “Sistema Torino” (sistematorino.blogspot.com) – capitanato dal giornalista Maurizio Pagliassotti – che attraverso spettacoli, pubblicazioni, forum, eventi e iniziative culturali continua a denunciare il gigantesco divario fra ciò che hanno raccontato e promesso i vari Castellani, Chiamparino e Fassino e ciò che sarebbe la “cruda realtà”. Per ulteriori approfondimenti si possono leggere gli ultimi due libri che ha pubblicato lo stesso Pagliassotti con Castelvecchi, “Chi Comanda Torino”, uscito nel 2012, e il recentissimo “Sistema Torino Sistema Italia”.

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