L'onda perfettaIl tempo in una sala d’attesa

"Non è possibile che tu sia italiana!” esclama la ragazza che mi sta servendo il cappuccino. Sono in coda allo Starbucks dell’aeroporto Schiphol di Amsterdam, le ho appena detto come mi chiamo così...

Non è possibile che tu sia italiana!” esclama la ragazza che mi sta servendo il cappuccino. Sono in coda allo Starbucks dell’aeroporto Schiphol di Amsterdam, le ho appena detto come mi chiamo così che possa scriverlo sul bicchiere di carta take away che mi restituirà traboccante di un tall cappuccino, e continua a guardarmi con gli occhi spalancati. Sostiene che è impossibile io sia italiana, che sembro una ragazza danese oppure olandese, di certo non italiana. Insiste. Sorridendo le ribadisco le mie origini, la saluto e le auguro buona giornata.

Prendo posto su una poltrona di questo grande aeroporto, da cui transita un flusso quotidiano di viaggiatori che non riesco neanche a quantificare, e penso quanto sia semplice in un non luogo come questo essere scambiati per ciò che non si è. Mentre sono intenta a sorbire il mio cappuccino dirigo lo sguardo oltre la vetrata dove, davanti ai miei occhi, si susseguono voli in arrivo o in partenza. Mi piace osservare i viaggiatori che transitano ed immaginare le loro vite, cercare di intrufolarmi fra i pensieri, dove sono diretti, da dove arrivano, quale potrebbe essere il motivo del loro mettersi in moto; a volte riesco ad inventare le storie di perfetti sconosciuti semplicemente osservando i loro atteggiamenti, magari mentre incrociano uno sguardo, sorridono o da come rispondono grazie ad una cortesia.

Sono affascinata dalle storie di chi parte o ritorna perché i viaggiatori di un aeroporto sono qualcosa che è in divenire: sono l’incontro che non è ancora avvenuto; sono la città verso cui sono diretti e che non hanno ancora visitato; sono quell’impegno di lavoro che li attende; sono i racconti di un viaggio appena compiuto e che qualcuno ascolterà, sono lo sguardo di chi li attenderà oltre la porta a vetri degli ARRIVI.

E poi rappresentano il tempo di un’attesa, quel tempo sospeso che attende di manifestarsi. Una sensazione che viene descritta meravigliosamente dalle parole che pronuncia, ad un certo punto del film, la protagonista de La ragazza sul ponte del regista Patrice Leconte: “Mi sembra che davanti a me ci sia una sala d’attesa, in un’enorme stazione, con panche e correnti d’aria. E dietro le finestre un sacco di gente che passa in fretta, senza vedermi. Hanno fretta, devono prendere un treno o un taxi, hanno un posto dove andare, qualcuno da raggiungere ed io sto lì seduta. E aspetto…Aspetto che mi succeda qualcosa”.