Giorni di open day, questi, per i genitori dei bambini che il prossimo anno frequenteranno le scuole elementari. Giorni in cui ti aspetti di entrare a scuola con la testa verso l’alto, alla ricerca di crepe, infiltrazioni e soffitti pericolanti, per sederti in aule minuscole, appoggiato ai banchi di trent’anni fa, quelli con il buco per il calamaio, coi nomi incisi con le chiavi o scritti con la scolorina.
Niente di tutto questo, perlomeno nella scuola – pubblica – prescelta per le elementari di mia figlia. Anzi. Banchi nuovi e splendenti, lavagne elettroniche al posto dell’ardesia in ogni aula, persino due pale sul soffitto per rinfrescare l’aria nelle giornate estive e una palestra cui è appena stata rifatta la pavimentazione. Un eccezione? Forse. Il preside gonfia il petto parlando dei risultati delle famigerate prove Invalsi, che vedono la scuola primeggiare in città, nel nord ovest ed è sopra alla media pure a confronto con il mitico nord est, che pare sia la squadra da battere, in questo peculiare campionato.
Insomma, ai genitori – me compreso – brillano gli occhi. E forse saranno i lucciconi, forse la disabitudine alle lavagne elettroniche, ma in pochi fanno caso a due numeri che scorrono tra una slide e l’altra. Ore settimanali di religione: due. Ore settimanali d’inglese: una. Il dubbio però si insinua, nella testa. E d’improvviso è come se la lavagna tornasse nera, se nel banco si aprisse il buco del calamaio, nel soffitto una crepa.
Riassunto delle puntate precedenti: piaccia o meno, l’inglese è la lingua ufficiale della globalizzazione. Una specie di lasciapassare per nove lavori su dieci, già oggi, e non è assurdo pensare che sarà un prerequisito imprescindibile, quando i bambini di oggi saranno giovani adulti. Una prospettiva, questa, che per chi ha a cuore la crescita e l’occupazione in Italia dovrebbe suonare come un campanello d’allarme, visto secondo una recente ricerca, siamo uno dei paesi che lo parla peggio in Europa. Ventesimo su ventiquattro, per la precisione.
La sensazione, uscendo da una bella scuola pubblica è che mia figlia, dopo un solo anno di elementari, sarà già in ritardo rispetto ai suoi colleghi europei. E no, non è una bella sensazione
I motivi? Parecchi: dal modo in cui è insegnato a scuola – troppa grammatica, poca conversazione -, cui discende la scarsa propensione degli italiani tutti a usarlo fuori dal contesto scolastico: ad esempio, per guardare i film o per consultare i siti web. Certo, tra le determinanti di questo ritardo, secondo la stessa ricerca, la scuola è importante, non fondamentale. E, allo stesso modo, non lo è il numero di ore di lezione. Per dire: il numero di ore di insegnamento medio previsto alle elementari in Italia – due ore a settimana – è lo stesso della Danimarca, il Paese in cui invece l’inglese lo sanno più o meno tutti, e bene.
Questo non vuol dire, tuttavia, che un’ora d’inglese a settimana in prima elementare non gridi vendetta. Perché l’alibi dell’età non regge, visto che è risaputo che più si è giovani più è facile imparare una lingua straniera. Soprattutto, perché basterebbe fare come si fa all’estero e come fanno alcune scuole elementari sperimentali in Italia: insegnare, ove possibile, alcune materie tradizionali – geografia ad esempio – in inglese.
Così facendo, i bambini si abituano a usare l’inglese in contesti diversi, informali, in cui il problema non è la coniugazione del verbo essere, ma provare a usare la lingua di Sua Maestà come veicolo di comprensione della realtà. La grammatica, esattamente come avviene per l’italiano, seguirà.
Difficile? Impossibile? Probabilmente sì. Ma la sensazione, uscendo da una bella scuola pubblica, con bei banchi, belle lavagne e belle palestre è che mia figlia, dopo un solo anno di elementari, sarà già in ritardo rispetto ai suoi colleghi danesi, tedeschi, spagnoli, estoni, europei. E no, non è una bella sensazione.