Tra la fine del 2010 e le prime luci dell’anno che sarebbe giunto, credendo di conoscere il mondo che insistentemente ci veniva mostrato dalle televisioni, osservammo esterrefatti e pieni di speranze una sorta di resistenza civile che attraversò il mondo arabo e che, mosso da un’ansia di definire la storia, il mondo occidentale chiamò “Primavera Araba”.
La guerra ci entrava in casa, mentre il desco accoglieva un pasto caldo, e la Siria, la Libia, l’Egitto e la Tunisia, lo Yemen e l’Algeria, l’Iraq e il Bahrein, la Giordania ed il Gibuti, la Mauritania e l’Oman, il Sudan e la Somalia, il Marocco ed il Kuwait conoscevano la polvere in ogni dove quasi ad appesantire e far bruciare le palpebre non solo dei singoli attori armati di qualche fucile e buone intenzioni ma anche, forse soprattutto, della nostra coscienza. D’altronde come non si poteva appoggiare moralmente una qualche reazione contraria alla corruzione dilagante, la povertà, la fame, l’assenza totale delle libertà individuali, le violazioni dei diritti umani, un sincero desiderio di rinnovare un regime politico che noi stessi avevamo già lasciato alle nostre spalle quasi un secolo prima?
Per questioni storiche, più contemporanee che scolastiche, osservavamo la Libia ribellarsi al colonnello Gheddafi. Bengasi, dal nome di quel benefattore che la città conobbe nel 1400 e di certo poco fedele al leader libico, divenne simbolo della rivolta libica. I militari furono inviati per reprimere i disordini e le agenzie di stampa cominciarono a battere la notizia che contro civili inermi i razzi RPG e le armi anti-carro tuonarono l’inizio della disfatta. Da Bengasi la rivolta si allargò a macchia d’olio sino a raggiungere Tripoli dove si ricorse all’aviazione per sedare, con i tempi ed i modi propri dell’aviazione militare, cercare di salvare il salvabile. Tra tradimenti politici e le accuse di crimini contro l’umanità, nell’ottobre 2011 Gheddafi venne catturato ed ucciso a Sirte. Prima che il suo cadavere fosse sepolto, una folle urlante ne faceva un trofeo di caccia.
Contro ogni previsione, la caduta del tiranno non risollevò il paese. La vacatio politica andava sì colmata ma da chi? Ad oggi la Libia è ancora impegnata in una lunghi ed estenuanti anni di guerra civile. Il conflitto riguarda, principalmente, due poli opposti: da una parte le forze rivoluzionare e dall’altra le forze politiche e militari fedeli all’ex rais. Come se non bastasse, in questo poco chiaro scacchiere di sabbia e petrolio, a confondere le acque già torbidi di sangue e morte, il paese è diviso tra due parlamenti: il parlamento regolarmente eletto a Tobruk; il parlamento di Tripoli auto-dichiaratosi.
Nell’ottobre dello scorso anno, l’Organizzazione delle Nazioni Unite si è fatta portavoce della volontà internazionale di sedare la crisi Libica anche, se non soprattutto, attraverso un compromesso di pace che inglobasse i due parlamenti in un’unica realtà politica che potesse guidare il paese. L’ipotesi lasciava perplessi entrambe le fazioni tanto da spingere Tobruk a definirsi contrario sin da subito. A nulla è servita la minaccia di sanzioni, da parte dell’ONU, a chiunque si opponesse all’accordo. La guerra è guerra e c’è poco da perdere, oltre la vita.
Geograficamente parlando, le due distinte fazioni occupano una propria realtà territoriale: nell’Est della Libia il governo di Tobruk e le sue truppe controllano la regione. Bengasi è il “nodo di Gordio”: alcune aree, infatti, sono sotto il controllo delle milizie jihadiste vicine ad al-Qaeda e l’IS – oggi Daesh. Anche il nordest del paese è sotto il controllo di alcune frange islamiche alleate con l’ISIS e non è certo un caso se il governo di Tobruk, con l’aiuto dell’Egitto, abbia scelto questa zona come teatro dei recenti bombardamenti condotti dalle forze militari egiziane.
Se c’è un oriente, non è difficile trovare un’occidente: ad Ovest troviamo il movimento ribelle di Alba Libica; secondo alcuni alti ranghi delle forze internazionali, questi rappresenterebbero il gruppo più potente. Oltre Misurata, parte di Tripoli sarebbe sotto il loro controllo.
Se da una parte ci sono i Rojo e dall’altra i Baxter, nel “mezzo” ipotetico della lotta per il potere troviamo anche Daesh – Isis – che da quando ha proclamato il suo stato islamico non ha trovato ostacoli sul suo cammino.
Appare evidente come la situazione libica sia più complicata e vada ben oltre le immagini che i media ci offrono in pasto. L’ideologia salafita jihadista è diffusa, soprattutto nelle tribù più conservatrici. Non essendoci un governo centrale ampiamente riconosciuto, le autorità risultano deboli e non in grado di controllare l’intero territorio e i suoi confini. Un gran problema, quest’ultimo, poiché un gran numero di attivisti vicini alla causa del califfato è giunta da Tunisia, Yemen, Algeria, Sudan, Mali, Niger, Ciad e paesi occidentali.
E adesso?
Secondo indiscrezioni – tante – e voci ufficiali – poche – l’intervento militare occidentale in Libia pare ormai imminente. Una missione internazionale guidata dal nostro Paese. Un intervento che risponde all’esigenza di rallentare e bloccare l’avanzata del Califfato ed il suo radicamento. Non solo: il nostro paese ricopre un ruolo fondamentale e strategico nei rapporti internazionali ed ha, non per ultima istanza, bisogno di tutelare gli interessi economici legati al petrolio ed al gas.
Tornare in Libia è una di quelle grane che nessuno vorrebbe affrontare ma, in realtà, sappiamo tutti che la situazione è così caotica e complessa che “di pancia” non è più possibile portare avanti la discussione. Sarebbe auspicabile, a questo punto, eliminare tutte le visioni pregresse e i dubbi. Le guerre sembrano simili ma hanno pesi storici differenti tra loro. Anche questa volta è così.
Vi è la necessità di fermare, anzitutto, il traffico di essere umani. Non solo per il secondario problema di dover affrontare il quotidiano disagio dell’accoglienza ma, bensì, fermare quei poveri ed inconsapevoli finanziatori della guerra dalla quale scappano.
I pozzi di petrolio, che lo si voglia ammettere o meno, se non sono nelle mani dei governi ufficiali o delle società internazionali, sono una delle più importanti fonti di finanziamento del terrorismo. Benché il costo di un gasdotto o di una raffineria sia doloroso, è necessario eliminare fisicamente queste strutture attraverso raid mirati.
Dobbiamo farci, anzitutto come politica italiana, portavoce di una transizione che vede il riconoscimento reciproco dei due parlamenti. Un compromesso, se volete, ma d’altronde sono riconoscendosi vicendevolmente – sino a confluire in un unico governo di unità nazionale – potremmo guardare con occhio meno preoccupato la Libia.
Abbiamo bisogno di senno e ponderatezza : arazionalità e senso di responsabilità, nonché con prontezza di riflessi nelle situazioni di emergenza. Una cosa è certissima: non saremo accolti da liberatori.