E’ un caso che sia Agosto inoltrato ed i tempi della storia e delle storie siano cambiati. E’ opinabile che sia la “stagione” per eccellenza ed i giorni della merla siano ancora lontani. La mia esperienza umana – facilmente sovrapponibile ad altre vicessitudini di altrettanti uomini -mi accenna sottopelle che si avvicina il giorno dei festeggiamenti per il santo patrono nel mio paese. Ritualità antiche, storie e leggende diventano il collante delle luci colorate, dei volti festanti e delle nottate che diventano giorno. Credo che oggi più di ieri siano importanti, al di là del valore religioso e trascendentale, le feste patronali per il valore emblematicamente rappresentativo delle comunità come identità collettive specifiche, condivisione di norme e valori, sfera della muta solidarietà.
Il metro, certamente errato di riferimento, è quell’età dell’oro dei rapporti sociali che furono incarnati dalla comunità contadina che si attesta alle spalle dell’esistenza di ciascuno di noi. La prima obiezione che mi si potrebbe, a questo punto, porre è lo statico mantenimento, da parte mia, di un tempo stagnato e perso. Rispondo che non cerco di sfuggire al mio tempo ed alla mia storia bensì considero il senso di “comunità” – in chiave postmoderna – un possibile antidoto all’alienazione ed ai relativi effetti del terzo millennio. La seconda obiezione, poi, è in relazione alla scelta di una figura religiosa quale segno distintivo di una comunità piuttosto che un colore, una piazza, una storia. La risposta è semplice: il patrono – indipendentemente dalla propria storia e dal proprio significato – diviene sineddoche perfetta di una identità che, per quel che mi riguarda, è inclusiva e mai esclusiva. Il patrono viene portato in processione nel giorno che è festa di tutti a tal punto che in molte realtà ha rappresentato la profonda radice che si contrapponeva allo slancio migratorio italiano che ha falcidiato fin dall’Ottocento, in misura diversa, tutte le comunità regionali.
Perché si tollera un simile sfaldamento, disorganicità e disintegrità? Perché è un dato accettato e comune. Ma senza un principio di integrazione – che si discosta in questo contesto da tutti i possibili utilizzi del senso stesso di integrazione – non esiste un io. Senza integrità l’essere umano non è umano ma solo una molteplicità e moltitudine di pezzi che, alle volte, stentano a stare insieme. Come se ne esce? Facendo pace con noi stessi, riordinando i pezzi, diventando genitori e mutuando, a prescindere da ipotetica prole , il senso etimologico della parola: coloro che creano. Cosa creano? Quello che eravamo nella sua semplicità.
Qualche anno fa, dopo lo scoppio del reattore nucleare di Fukushima, furono inviati antropologi, psicologi e psicoterapeuti per curare anzitutto la ferita emotiva della comunità. Forse è questo che deve tornare, soprattutto a livello cittadino, ad essere una priorità. Vi sono ferite da rimarginare con cura, affetto, amore. Ristabilire le sinergie, il senso di comunità per sfuggire alla disorganicità che influenza il quotidiano. Disertare, in conclusione, la mentalità gretta e piccola che ci lascia intendere che quello che succede, non sempre, nelle alte sfere della res publica possa avere una sua immagine speculare nella dimensione della politica amministrativa.
E’ Agosto ma potrebbe essere Marzo che attende la primavera. Io osservo il mio paese, la comunità che ha visto la mia nascita biologica, guardingo nell’aprire le danze dei festeggiamenti. Scrivo di comunità perché la mia, come altre, boccheggia nel non sapere cos’è oggi. Dei santi, per noi che non ne abbiamo in paradiso, mi interessa poco. Ma qui ci stringiamo intorno a Bernardino, a Pisticci a Rocco ed a Riscone forse a Maria Assunta. Tornare all’ordinario dei fondamentali altrimenti di cosa parliamo?