Per una volta i sondaggi c’hanno preso. Come abbiamo visto tutti, infatti, il primo turno delle presidenziali francesi non ci ha regalato nessun colpo di scena e sono passati i due favoriti: l’enfant prodige fuori dai “vecchi” partiti (ma sempre dentro alle banche) Emmanuel Macron (24%) e la leader del Front national Marine Le Pen (21,3%), al ballottaggio per la seconda volta dopo l’incubo del 2002 (ma con 3 milioni di voti in più). A loro, ovviamente, vanno tutti gli onori (e gli oneri) della vittoria del primo turno. Ma oggi, a riflettori spenti, è doveroso parlare anche di chi ha perso. Sì, perché la vera notizia di questa prima tornata elettorale è stata la pesantissima sconfitta della sinistra. Anzi, di tutte le sinistre francesi. Un suicidio politico annunciato (nonostante l’exploit di Jean-Luc Mélenchon) che, in fin dei conti, è il principale responsabile del clima di tensione che si respira da domenica sera: la paura che Marine Le Pen, nonostante tutto, possa diventare Presidente della Repubblica il prossimo 7 maggio.
1) Si parla già da tempo di come la sinistra francese si sia fatta soffiare dal Front national (e dal gaullista Nicolas Dupont-Aignan, che con il suo movimento nazionalista ha preso quasi il 5% dei suffragi) l’elettorato popolare (operai, agricoltori, pubblica amministrazione su tutti). Non parlando più alle classi più svantaggiate del Paese e/o tradendo le loro aspettative una volta al potere, i partiti di sinistra ormai possono contare solo sul voto dei radical chic dei grandi agglomerati urbani – perfino un “estremista” come Mélenchon ha attirato le lodi di tale Pamela Anderson, recentemente folgorata dalla religione vegana e animalista. Che il Paritio socialista, invece, sia diventato il partito dei bourgeois-bohèmes lo sappiamo da qualche anno. E’ bastato spostare a sinistra il suo baricentro programmatico – operazione svolta dal vincitore delle primarie Benoit Hamon – per perdere lo zoccolo di elettori che ne decretò il successo 5 anni fa.
2) Detto questo: la sinistra un elettorato su cui puntare ce l’aveva ancora, per sua fortuna. Ma che hanno combinato i leader dei vari partiti? Hanno fatto di tutto per non mettersi d’accordo: neanche due forze politiche identiche come quelle di Philippe Poutou (Nuovo Partito Anticapitalista) e di Nathalie Arthaud (Lotta operaia) sono riuscite a convergere su un unico candidato (il perché non lo sanno neanche loro). Figuriamoci se potevano farlo le due star Hamon e Mélenchon. Ci hanno provato, ma non c’è stato niente da fare.
3) Nel corso della campagna elettorale, Hamon – già in caduta nei sondaggi – è stato isolato all’interno del suo stesso partito. Il colpo più duro gli è arrivato dallo sfidante alle primarie ed ex Primo ministro Manuel Valls, che ha dichiarato con nonchalance che avrebbe votato per Macron al primo turno. Mentre Hamon sprofondava nei sondaggi, il collega Mélenchon spiegava le ali, arrivando addirittura a superare il leader della destra moderata François Fillon. Insomma, la sinistra aveva il suo cavallo vincente. Ma, nonostante tutto, Hamon non ha voluto cedere a chi gli chiedeva di arrendersi e di invitare i suoi elettori a convergere su Mélenchon. Questione di ego? Chi può dirlo. Fatto sta che Mélenchon si è fermato a meno di 2 punti percentuali da Marine Le Pen (19,6% contro 21,3%) e quel misero 6,4% di Hamon – che poteva essergli largamente sufficiente per approdare al secondo turno scartando una volta per tutte il Front national – gli servirà solo per farsi rimborsare la campagna elettorale. Meglio di niente, penserà lui.
4) Come se non bastasse, Poutou e Arthaud hanno chiesto ai loro elettori di votare scheda bianca al secondo turno e Mélenchon è stato uno dei pochi leader politici francesi a non invitare a votare Macron in vista del cosiddetto “fronte repubblicano” contro il Front national. Votare in massa Macron e la sua politica liberale e mondialista, secondo lui, significherebbe affossare ancora di più il Paese e – di conseguenza – rafforzare ancora di più Le Pen.
La crisi ontologica della sinistra e il suo narcisismo, insomma, potrebbero rappresentare il problema più grande di una Francia che fa fatica – oggi più che nel 2002 – a scegliere il meno peggio e che vede un’unica luce in fondo al tunnel: le prossime elezioni amministrative.