16 marzo 1978
Quel giorno per me la storia personale si incrociò con quella più grande. Chissà perché ne ricordo i dettagli a partire dal colore giallo ananas del maglione del bidello. Ora non saprei dire se fosse veramente tale, o non piuttosto un custode. Entrò in classe guardando in faccia la Bianchini. La mia maestra sbiancò: «No!» – fece, sbattendo le mani una nell’altra. Noi non capivamo perché i grandi fossero così sconvolti. E anzi quasi eravamo eccitati, perché qualcosa stava succedendo, era successo, e insomma dovevamo tornare a casa. Presto. Subito. Ricordo che salii le scale della casa di nonna, ma quella volta non c’era l’odore di sugo di carne che saliva nella tromba delle scale. Un silenzio strano faceva udire il rimbombo ovattato di un’unica emissione televisiva che filtrava da ogni porta. La porta di mia nonna era semiaperta, e lei invece di essere in cucina era davanti alla televisione del salotto.
Frajese – «Ecco stanno arrivando le immagini che abbiamo ripreso…»
Vespa – «al Trionfale—-»
Fraiese -sì, a via Stresa…, sì… Sono quattro i morti, sono lì… due nella macchina , nella prima automobile… sta arrivando?»
Vespa, parlando al telefono. «sì? Possiamo dare la partenza, sì, allora è pronto il tuo servizio, sì…»
Fraiese – e «Adesso vediamo il primo servizio sul rapimento di Moro avvenuto un’ora fa…»
Seguivano le immagini di un mucchio di gente in piedi vicino a due macchine crivellate di colpi, e poi dei lenzuoli a coprire delle persone per terra e dentro le macchine. E una bava di sangue che scorreva da sotto un lenzuolo da cui sporgeva una mano con un orologio come quello di mio padre.
Non era un film, non era assolutamente un film. Lo sapevo, a me non stupiva che fosse reale che avessero sparato. Tutti i giorni sparavano. Le brigate rosse… Stupisce invece oggi, dopo quarant’anni da allora, mentre scrivo, che a me bambino, a quel bambino che ero sembrasse strano che se c’erano stati dei morti qualcuno avesse voluto coprirli. Ma perché se erano morti? Non potevano prendere freddo. Se non volevano che si vedessero potevano toglierli subito di là, e non lasciare che la tv li riprendesse così, stesi a terra.
«Poveri figli. Poveri figli! » mia nonna ripeteva. Poveri figli. Anche se erano padri, erano figli. Nel dialetto di mia nonna era il modo di onorare quegli uomini, ma si preoccupava di chi lo avrebbe detto alle loro mogli, alle loro madri.
«Delinquenti maledetti», quelli che avevano fatto quei morti. «Madonna santa, poveri figli. Ohi madonna….»
Mentre la tv mandava quasi in loop quelle immagini – che poi avrei rivisto, ricollocato nella loro dimensione storica, anche se ancora oggi faccio fatica a realizzare veramente come a quel tempo tutto ciò potesse sembrarmi normale – la memoria è fissata su quella scena. Il salotto di mia nonna, la tv accesa, quei lenzuoli bianchi. E poco prima il maglione del bidello e la maestra che era scoppiata a piangere. «Il presidente è stato rapito».
Poi non ricordo più nulla.
Quattro anni dopo ero in macchina con mio padre, stavamo andando a Taranto. «Se avessero vinto le BR, le avrebbero considerate come oggi considerano gli eroi del risorgimento. Ma hanno perso. La storia lei fa così». Credo fosse l’83.
Ma cosa era successo a quella generazione? A quella di mio padre dico. Che poi era quella che sparava per strada. E alla mia che a otto anni scriveva: «Violenza spari morti assassini furti ostaggi. Via tutto questo, via! E un giorno diremo abbasso l’odio, viva l’amore». Questa poesia la scrissi nella pasqua di quell’anno, credo. La maestra ci fece raccogliere quelle che avevamo composto, e conservo ancora il libretto rilegato. C’era anche quella di Angela. «Un passero si posa sul davanzale. Cerca qualche briciola la trova. È contento, ha capito che qualcuno lo ama». L’amore. Tutte queste poesie finivano con l’amore. Forse perché la quota di barbara aggressività di quella società era tale che le parole che si insegnavano ai bambini dovevano avere la purezza assoluta, quasi brutale, di un esorcismo.